sabato 31 gennaio 2015

Noi cambieremo il mondo. Quarta Parte

                                                                Elena
(1935)

Si ferma ad osservare un nome e una fotografia, prosegue verso la colonnina con la statuetta della madonna dipinta in oro. Prenderà il vialetto centrale e dopo bisogna voltare a destra, poi ancora a destra, sino al piccolo piazzale. Ancora una sosta ai piedi del crocifisso ligneo. Come ogni volta leggerà la data, 1754. Si affaccerà alla balaustra di travertino e dall'alto della collina guarderà  la sua città. Non ci sono più famiglie illustri da seppellire quassù, ma una volta le tombe di chi contava in città erano tutte lì. C'è anche la tomba dei Riva. Naturalmente.

Sono venuti gli amici di Tiziana. Che bella la lettera mi ha scritto Perruchon. C'era quel compagno che lavora al Centro Roatti. Agnese ha insistito tanto. -Vai anche tu! Possibile? Sei il più importante. Ti vergogni?- Lei nò che non si vergognava delle interviste! Ci chiudono in una cassetta prima di morire e finiamo in  biblioteca. Videoteca. Si chiama così. Perché Agnese non ha voluto farsi cremare? Clemente Roatti. Studiava fisica. No. Era un chimico. Gli hanno cavato gli occhi. Era maggio. Mi pare. Maggio.

-Dovere. I miei ossequi signora.-
Con un leggero inchino si congedò da Elena Riva. Con Alfonso si strinsero la mano e quando il funzionario si ritrovò  nel giardino di Villa Riva, emise un gran sospiro.

Che situazione! Con i soldi che tengono debbono far pena a uno come me, che ha sempre campato con lo stipendio…Una tegola in testa così, se t'arriva tra capo e collo ti mette a terra per tutta la vita.

Si avvicinò all'automobile scura. L'autista fece per aprirgli la portiera, ma lo bloccò con un gesto.
-Vai, vai tu. Io faccio quattro passi. Vai.-
E s'incamminò verso il centro. Prese la strada dei portici che a quell'ora del pomeriggio era più affollata del solito e gli venne in mente che l'indomani era la festa del santo patrono.

I cafoni scendono dalle montagne.

Un gruppo di avanguardisti in divisa lo superò, gli sembrarono volgari quei ragazzi. Si scambiavano insulti.

Ora li metto sull'attenti.

Non aveva voglia invece.
Rallentò l'andatura.

Un caffé. Quà lo fanno buono.

Entrò e sedette a un tavolino accanto alla finestra. Poteva guardare la strada e il traffico di cittadini e contadini al crocevia. Al cameriere ordinò un caffè corretto grappa e un bicchiere d'acqua semplice.

Allora! Il ragazzo dei Riva è arrivato a Parigi. Di questo  siamo certi. Povera signora Elena, m'ha fatto compassione quando m'ha detto che voleva andare a parlare alla donna. Che ci va a fare da Clotilde Calosso? Il marito l'ha guardata con certi occhi però. Chissà? All'inizio poteva essere una ragazzata, dietro a una sottana un giovanotto un po' strologo che si mette nei guai. Ma Parigi! Ha attraversato le montagne. Un bel coraggio! E a Parigi lo imbottiranno di fesserie e come niente lo mandano in Italia. E noi lo acchiappiamo! Vent'anni di galera non glieli leva nessuno stavolta. La signora ha detto che vuole andare a Parigi. Parigi è un formicaio. Che mi dicevano l'altro giorno? Un caso come quello di Riva. A Mantova. Non sono solo operai e vecchi disperati. Che vogliono? Abbiamo dato l'Impero a questa gente! Se le cose a un certo punto si mettessero a rovescio ci sputerebbero in faccia, a noi e al Duce. E questi ragazzi delle famiglie ricche che si mettono a imitare i bohemiennes. I problemi in famiglia? Calci in culo e battaglione di correzione. Me li ricordo i tenentini in Libia. I problemi in famiglia! Ma come è andata stà storia? Il rampollo dei Riva conosce Clotilde Calosso che lo istruisce sui misteri del bolscevismo e forse sui suoi misteri di femmina. Il ragazzo s'entusiasma e visita un vecchio professore che a quest'ora è già morto. Ma questo lo sapevamo. Quello che non sapevamo era che doveva arrivare un tale dalla Francia e non sapevamo nemmeno di quei tre all'officina che volevano mettere le bandiere rosse il giorno della dichiarazione all'Abissinia. Cacchio. Ma quante cose non sapevamo? Uno arriva dalla Francia e prima, quattro giorni prima, scrivono viva la Russia e abbasso la guerra sui muri della fabbrica. Il nostro si mette in moto. Quando sento tutta la storia rimango di sasso. Passi per la donna. Gli hanno ammazzato il marito. Passi per quelli del Borgo Vecchio: mezzi delinquenti. Passi per i tre dell'officina che pure qualche storia c'avranno con i capireparto. Ma il ragazzo dei Riva? E chi se lo aspettava un guaio grosso come una casa? M'hanno detto: attendere. E intanto passavano giorni. Una settimana ci abbiamo messo per colpa del moccioso. Chi me l'avrebbe detto? I due fratelli Riva convocati in ufficio, pallidi, bianchi come un lenzuolo mentre raccontavo la storia e il padre che si torceva le mani. E il Prefetto c'è rimasto così male. L'altro, Giulio, è il più scornato. Se n'è andato addirittura in Africa per sta storia. E il ragazzino s'è salvato dalla galera. Quelli del Borgo, l'emissario, la donna e i tre dell'officina, tutti in gattabuia e lui invece dai preti in montagna. Mi fa un poco incazzare sta storia! Nessuno scandalo, m'hanno detto, la patria è impegnata in un'impresa decisiva. E' meglio...Io l'avrei messo al muro. Come si faceva una volta. Lui e suo padre. Noi gli teniamo il culo al caldo ai professionisti. E loro si perdono i figli. Altro che Valle d'Aosta per pentirsi. E poi il figlio di puttana scappa e se ne va a Parigi. Ma allora fa sul serio? Mi vuole fare incazzare? Meglio non fare figli. Ho fatto bene io.

Dieci giorni dopo la partenza di Giovanni per la Valle d'Aosta Agnese svenne sulle scale. Si ferì leggermente sulla fronte e quando riprese i sensi si trovò accanto Armandina. Anche la signora Elena, bianca come un panno lavato, era venuta a dare una mano per sollevare la ragazza e distenderla sul divano.
-Stai bene?-le chiese Armandina.
Agnese vide la signora e scoppiò a piangere.
Armandina sentiva mormorare il nome del signorino che era partito per una breve cura all'estero. Così le aveva detto la padrona.
Armandina si volse a guardare Elena che osservava la ragazza con la fronte corrugata. Il bel volto di Elena era tirato e il corpo pareva rigido, tenuto su da una tensione che non l'abbandonava da quando suo marito era corso a casa per raccontarle che l'avevano convocato in questura insieme al fratello. Giovanni, le aveva detto, s'era mischiato con un'associazione segreta di sovversivi e se non voleva finire in galera come gli altri, doveva sparire dalla città. E il Prefetto aveva concluso.
-Per questa volta ci pensate voi, la prossima tocca a noi.-
Alfonso aveva mormorato:
-E' impossibile, non è vero.-
Il Prefetto lo conosceva da vent'anni.
-Ma dove ce l'hai gli occhi!-
Così gli aveva urlato. Ma s'era subito corretto.
-Scusa. Scusatemi tutti e due.-
Il silenzio era sceso nella stanza e il funzionario, era nel suo ufficio che si svolgeva quel colloquio, aveva distolto lo sguardo dai due fratelli. Giulio Riva che non voleva credere alle sue orecchie, ora diventava rosso per la rabbia e la vergogna.
E la servetta sveniva e chiamava Giovanni come una fidanzata che ha perso l'innamorato in guerra.
Le labbra di Elena sembravano scomparse, tanto le teneva strette.
-Che c'è? Che vuoi tu dal signorino?-disse Armandina.
Le scostò le mani dagli occhi.
-Guardami, ragazzina!-
Elena posò una mano sulla spalla di Armandina.
-Aspetta.-
Armandina  fece posto alla padrona che sedette accanto alla ragazza.
-Agnese.-disse Elena cercando di non urlare.-Cosa sai di Giovanni?-
Le aveva preso la mano destra. Agnese guardava Elena con gli occhi sbarrati.
Vedeva  davanti a se non Elena Riva, ma l'altra signora che non conosceva. Era successo al mercato. Clotilde le era comparsa davanti all'improvviso.
-Tu sei Agnese?-
E lei aveva fatto un cenno con la testa.
-Tu vuoi bene a Giovanni, non è vero?-

Certo che gli voglio bene.

Una paura folle l'aveva assalita.

La signora Elena ha scoperto tutto.

Le era mancata la parola.
-Dai questo a Giovanni. Tu non mi hai mai vista. Ricorda. Giovanni è in pericolo.-
Le aveva messo in mano un pezzetto di carta piegato in quattro e Agnese, come un automa, se l'era infilato nella tasca della giacchetta.
-Addio. Tu non mi hai mai vista.-
E aveva fatto quel gesto. Terribile. S'era portato alle labbra l'indice della mano destra. Un ordine. Poi era sparita in mezzo alla folla.
-Non posso parlare.-
Così aveva risposto Giovanni alle sue domande, quella sera.
Le aveva dato un bacio sulle labbra ed era scappato via. Pallido, gli tremavano le mani. Se le ricordava le ultime parole.
-Ti voglio bene. Ricorda.-
Agnese urlò. Dimenò le braccia e le gambe, Elena e Armandina fecero fatica a tenerla. Poi giacque esausta. Chiuse gli occhi.
E allora fu la volta di Elena.
-Che c'è? Che c'è? Che succede ancora in questa casa? In casa mia, sotto i miei occhi?-
Gridava e colpiva Agnese, tanti schiaffi sulle guance.
-Puttana! Io ti ho accolto in casa mia. Puttana!-
Agnese era certa che la signora l'avrebbe uccisa. Poi gli schiaffi erano finiti e s'erano guardate in faccia. Le era parso che la Villa non esistesse più e loro due fossero sole, lassù, ai pianori più alti della montagna. Lei, Agnese Vairos, e la mamma di Giovanni. Piangevano. E pure Armandina piangeva in un angolo, piano, piano.
-Io a Giovanni gli voglio bene signora. Lui m'ha insegnato a leggere e a scrivere. Veniva di nascosto nello stanzino. Io a Giovanni gli voglio bene.-
Nonostante le botte, Agnese sentiva di aver ritrovato un po' di coraggio perché capiva che la signora Elena era disperata più di lei. La guardava con gli occhi spalancati. Mettevano paura.

L'avrà baciata. Si sarà strofinato con lei, le mani sotto le vesti. A due passi da me, mio figlio si accoppia con una montanara. Puzzava di capra quando è arrivata.

Questo pensava Elena.
-Che avete fatto?-le aveva chiesto con voce rauca per gli urli e il pianto.
-Madonna santissima aiutaci.-mormorava Armandina.
-Niente. Niente, signora.-aveva risposto Agnese.
Elena le aveva tirato su la veste.
-Come niente? Sei incinta: ecco lo svenimento! Che hai fatto a mio figlio?-
E l'aveva toccata, là, dove uscivano i bambini quando i figli dei padroni mettevano incinta le cameriere.
E Agnese gridava:
-No. Giovanni mi vuole bene. No. Non è vero. Non aspetto un bambino!-
Elena le aveva fatto male e Agnese s'era piegata in due sul divano, con un disperato gesto di difesa aveva respinto la sua padrona che tornava a colpirla.
-Signora!-Armandina aveva urlato-Non faccia così, signora. Ci penso io a questa.-
Agnese piangeva, tentava di coprirsi. Elena s'era ammutolita, le parole dell'anziana cameriera erano suonate come un richiamo.

Non come una lavandaia.

Lentamente Elena s'era sollevata il piedi.
-Dalle quello che le spetta e mandala via. Non la voglio più vedere in questa casa. Via!-

Calma. Stai calma. Certe cose una signora non le fa. Non può.

Così ripeteva a se stessa mentre saliva le scale.
Ma quando passò davanti alla camera di suo figlio non sapeva dove andare e cosa fare. Pensò a suo marito, fra poco sarebbe tornato alla Villa e avrebbero cenato in silenzio. L'idea di andare a Parigi era stata abbandonata per il momento e anche quella di incontrare Clotilde Calosso al funzionario non era sembrata opportuna. Il funzionario aveva detto che era meglio aspettare, prima o poi ci avrebbero pensato loro a scoprire dove stava Giovanni Riva.
-E' un ragazzo. Non mettiamo mezzo mondo in allarme, il ragazzo si può recuperare.-aveva detto.
Elena aprì la porta della stanza e gettò uno sguardo sulle cose di suo figlio, c'erano ancora i libri di scuola sulla scrivania e le penne, il calamaio, i pennini. Altri libri invece stavano ben ordinati nella piccola biblioteca personale di Giovanni. Quelli che leggeva a dodici, tredici anni.
-Le tigri di Mompracem...L'ultimo dei moicani...I tre moschettieri...Dove sarà? Cosa farà? Con chi parlerà?-
Elena ne tolse uno dallo scaffale, "Ettore Fieramosca" di Guerrazzi. Guardò la copertina di cartoncino, sfogliò qualche pagina.
Poi se lo strinse al petto.

Ci passava le ore nella biblioteca del nonno. Era cresciuto, leggeva altri libri. M'ha detto che gli piaceva la storia scritta da quel francese. Michelet...

E si vide mentre alzava le mani per colpire la servetta.
Di corsa abbandonò la stanza di suo figlio e s'affacciò sul ballatoio.
-Armandina!-gridò.
L'anziana cameriera s'affacciò in fondo alle scale.
-Dov'è la ragazza?-
-L'ho chiusa nello stanzino. Domani all'alba la mando via, ora che è buio...-
-Aspetta. Portala su da me.-
-Signora...-provò a implorare Armandina.
-Fa come ti dico.-

Agnese non aveva più paura quando entrò nella camera da letto della signora Elena. Sapeva soltanto che Giovanni era lontano e non l' avrebbe mai più visto. A che serviva aver paura? Chi le avrebbe raccontato come son fatte le stelle e perché l'acqua del mare si solleva in certi giorni di Luna? E mai più avrebbe sentito il suo seno come quella sera, nella casa al mare che la signora aveva affittato per le vacanze. Quella sera sì che erano stati quasi come marito e moglie. Ma ora?  S'era ritrovata nello stanzino e in fretta aveva radunato le sue poche cose.

Cosa dirò alla mamma? Poi. Poi ci penserò. Ora è meglio andar via di qui. Non vedo l'ora di esser fuori.

Agnese s'era fermata, come se quel pensiero le facesse paura. E non per il futuro che l'attendeva,  era sorpresa per l'improvvisa decisione: non voler restare più in quella casa.

E' vero, mi ha cacciata. Ma io che ci stò a fare qui? Senza Giovanni?

Poi la chiave girò nella serratura e Armandina disse che la signora voleva vederla.

-Siediti.-
Agnese sedette davanti alla sua padrona su una poltroncina bassa, ricoperta di velluto color crema.
-Mi dispiace.-disse Elena.
Si guardarono negli occhi. Elena fu colpita da qualcosa che le parve cambiato nella ragazza. Gli occhi di Agnese non si abbassarono, le labbra non tremavano e tutto il corpo aveva una posizione quieta, di attesa. Sembrava che Agnese volesse dirle "sbrigati che me ne debbo andare".
-Tu vuoi bene veramente a mio figlio?-
Agnese si volse a guardare verso un punto indefinito dello spazio.
-Si.-rispose con voce debole, ma era come se stesse evocando un ricordo lontano.
-E lui ti faceva leggere, ti insegnava a scrivere?-
-Si.-ripetè ancora Agnese.
-E perchè non me lo avete detto, perché non mi ha chiesto niente?-
-Non lo so, signora.-
La voce di Agnese non cambiava di tono.
-Ma come è accaduto? Com'è successo tra voi?-
Agnese guardò la sua padrona, sorrise, poi scosse il capo.
-Non lo so. Ci si vuol bene. Non si capisce mai il perché.-
Elena aveva chinato il capo e guardava le sue mani bianche posate in grembo, poi le ginocchia e le punte delle sue scarpe scure.

Non si capisce mai il perché. E' vero.

Fra pochi minuti l'uomo che l'aveva amata, suo marito che le aveva fatto generare il figlio ora lontano e forse perduto per sempre, si sarebbe seduto davanti a lei. In silenzio.
-Raccontami.-chiese ad Agnese. Era una voce che tremava.
Agnese si ricordò di una frase di Giovanni.
-Siamo tutti uguali. Fatti di carne e ossa, gioia e dolore. Così diceva Giovanni.-
Era vero. Davanti a lei c'era la sua padrona che era di carne e ossa. Soffriva, come e più di lei. Chiedeva, senza dirlo, aiuto a una servetta scesa dalle montagne nemmeno un anno prima. Il desiderio di voler essere fuori di lì afferrò di nuovo Agnese. E allora raccontò alla padrona come era avvenuto che Giovanni si accorgesse di lei, le dicesse che le avrebbe fatto da insegnante, avesse scritto in quell'alfabeto antico una frase d'amore davanti alla torre medioevale in un pomeriggio in cui gli avevano chiesto di accompagnarla per portare un regalo di nozze.
-Mi ha sempre rispettata, signora.-
Così concluse il suo racconto Agnese. E quando Elena le chiese se le avesse mai parlato di altre amicizie, di gente che lui frequentava di nascosto, Agnese scosse il capo. Ricordava il gesto dell'altra signora, il dito sulle labbra e sentiva che se voleva continuare a voler bene a Giovanni non doveva dir niente di quel biglietto su cui c'era scritto l'indirizzo di una strada in una città lontana. Forse non avrebbe mai più visto Giovanni e questo era l'ultimo pegno d'amore per lui.
-Non mi ha mai parlato di niente signora. Mi creda.-
Elena tacque per un momento che sembrò lunghissimo.
-Scusami per poco fa. Rimani in casa mia.-disse alla fine.
-No. E' meglio di no, signora Elena.-rispose Agnese, convinta di dire la cosa giusta.


                                                  Fine della quarta parte

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