giovedì 29 gennaio 2015

Noi cambieremo il mondo. Di Stefano Viaggio. Seconda parte. Primo episodio.

                                                 Agnese

  (1935)
Bisogna scendere in strada, accendere il motore e dirigersi verso l'ospedale. Abbracci, parole, conforto. Il reciproco conforto. Arriveranno i telegrammi: un pacco. Ci può giurare. Agnese era conosciuta. Giovanni vuol rimanere in casa, ancora per qualche minuto. Cerca le sigarette. Fuori è primavera e il vento leggero scende dalle montagne. Ma oggi le foglie dei vecchi alberi di Villa Riva brillano di luce incerta.

-Gli inglesi e i francesi ci voltano le spalle? Chi se ne frega! Con i tedeschi? Sissignore: con i tedeschi. L'Italia, con i tedeschi ha la strada spianata. Io ci ho combattuto contro...-
Alfonso Riva interruppe suo fratello.
-Hitler non mi convince affatto. Questi sono diversi. E ancora la storia della superiorità germanica! Mi pare una gran corbelleria...Ma se la nostra casa è piena zeppa di libri francesi!-
Giulio riconosceva ad Alfonso una certa superiorità intellettuale, ma con il passare del tempo s'era abituato a considerare le idee del fratello e il suo modo misurato di affrontare i grandi problemi della politica, e quindi della vita personale e pubblica,  come l'eredità  d'una vecchia Italia travolta, prima dalla guerra e poi dal fascismo. Eppure anche Alfonso era stato per la guerra nel novecentoquindici, e Giulio, più giovane di due anni, l'aveva ammirato.
Giulio ricordava Alfonso in prima fila fra i giovani che prendevano il treno imbandierato con mille tricolori per andare a Quarto, alla grande adunata in cui il Poeta avrebbe lanciato la sfida decisiva...
E lo rivedeva in divisa, un volontario fra i mille che partivano per liberare le terre irredente.
Che giorni...E che invidia! Lui per il momento rimaneva a casa: troppo giovane, sentenziavano al Distretto i vecchi impiegati.
Ma quell'Alfonso era un ricordo...un bel ricordo.
Quando s'era trattato di scendere di nuovo in campo per difendere la Vittoria insozzata dai cortei bolscevichi che volevano dare l'assalto alle case di chi s'era arricchito col lavoro e la perseveranza, Alfonso s'era tirato indietro. Era rimasto a guardare i giovani che facevano la rivoluzione, la vera e unica: fascista.  E rischiavano, ogni giorno, ogni ora, ogni notte, la pelle per impedire ai rossi di mettere le fabbriche in mano agli operai.
I rossi erano stati sconfitti, gli operai erano tornati al lavoro con un nuovo ordine che aveva rimesso le cose apposto. Tutti italiani, solo italiani. E la pace era tornata in città, nelle campagne e un tempo nuovo era cominciato. 
A volte Giulio, pur provando un sincero affetto per suo fratello, sentiva crescere un rancore per quelli come lui che ogni giorno se ne andavano in ufficio tranquilli: non avevano fatto niente per guadagnarsi quella sicurezza eppure vivevano e prosperavano, certi che mai niente sarebbe cambiato nella vita.
Ma ora qualcosa accadeva, e per tutti...anche per suo fratello Alfonso.
E Giulio non riusciva ad accettare quella diffidenza per la nuova alleanza con una Germania risorta e in cui c'era un uomo, forse un po’ originale, che ammirava l'Italia di Mussolini.

L'Italia è un modello per i tedeschi. C'é da farsi girar la testa. Solo vent'anni fa era impensabile.

Ed era convinto che le due vittime del trattato di Versailles avrebbero regolato prima o poi i conti con francesi e inglesi: gli egoisti che dominavano il mondo con il denaro e la corruzione. Una vera e propria congiura internazionale per strangolare i popoli giovani. E a capofila della congiura c’erano sempre loro: gli ebrei.
-Ma se i tedeschi ci ammirano. E sono un popolo disciplinato. Non dimentichiamoci la disciplina: questa volta, fratello caro, prendi un abbaglio. La nuova Europa? Eccola: italiani e tedeschi. E sarà un'Europa senza gli ebrei di mezzo. In Germania li hanno messi con le spalle al muro.-
Alfonso guardò il fratello.

Gli ebrei?

E ricordò un volto.
-Tu l'hai conosciuto Cavaglione?-disse.
-Si. Me lo ricordo. Si.-
-E allora?-
-Allora cosa?-
-I Cavaglione, non sono ebrei?-
Giulio tacque. Certo, se lo ricordava bene Cavaglione. Aveva venticinque anni quando l'avevano ammazzato i rossi. Era successo sulla collina, alle cascine vecchie. Di notte, al ritorno da una spedizione. Dopo aver messo apposto certi rossi della montagna, i fascisti ritornavano cantando a squarciagola. Dal buio era partito un colpo di moschetto, e poi un altro, e poi un altro ancora. Tutti erano saltati giù dal camion con le pistole in pugno. Uno aveva detto.
-Oh! Camerati! Cavaglione è ferito.-
Così era morto Cavaglione, a venticinque anni. 
E ora il nome di Cavaglione stava scritto sulla lapide. "I martiri della Rivoluzione delle Camice Nere". In cinque erano morti, tutti pieni di entusiasmo e gioventù. Cavaglione nel ventuno.
-Gli ebrei italiani sono una cosa, quelli tedeschi un'altra. Non sono loro che prima hanno scatenato la guerra e poi l'hanno fatta vincere a chi gli è parso e piaciuto?-
-Balle! Balle.-
Alfonso non usava mai quelle parole.
-La guerra in Africa è necessaria? Va bene.-disse-Togliamo pure di mezzo un regno barbaro e schiavista. Diamo lavoro ai nostri contadini meridionali. E va bene! Ma quando sarà tutto finito è con l'Inghilterra e la Francia che dobbiamo far la pace. E' con loro che abbiamo vinto l'altra guerra. Voi, tutti voi, che adesso spasimate per questo Hitler, non ve lo dovete dimenticare.-

-Non so più nemmeno com'è fatto un cinematografo.-
Clotilde sedeva accanto alla finestra.
Ora che le giornate s'allungavano poteva risparmiare la luce elettrica per lavorare nel pomeriggio. Giovanni andava meno spesso a trovarla: gli esami di maturità s'avvicinavano. Un tempo la promozione avrebbe significato regali, un bel viaggio con i genitori, le lodi in famiglia e fra i conoscenti. Ma ora superare l'esame segnava un altro distacco. Finiva il tempo dei giorni vissuti nell'attesa delle vacanze, di un regalo e forse di un viaggio. S'apriva un epoca nuova per lui, perché doveva decidere cosa fare nella vita. E non ne aveva voglia. Come non aveva voglia di andare a Torino per l'Università. Anzi, non aveva nemmeno chiaro in testa a quale facoltà si sarebbe iscritto, anche se la cosa più logica sarebbe stata una laurea in giurisprudenza. Ma quella prospettiva lo lasciava indifferente.
-E' da un pezzo che al cinema si sente la voce.-disse.
Clotilde posò il lavoro sulle ginocchia e scostò un poco le imposte della finestra. La temperatura s'era alzata e sembrava di essere già in estate.

E se ci andassimo insieme?

Giovanni fu tentato di proporre quell'idea alla signora Clotilde. Non le dava del tu.
Sapeva che Clotilde non avrebbe accettato.
-Raccontami, l'ultima volta che sei andato al cinema che storia c'era?-
-Un film americano. Quelli con gli uomini a cavallo che sparano: Bufalo Bill ammazza i bisonti e gli indiani assaltano il treno. Bello.-
-E c'era solo Bufalo Bill?-
-No. C'era una signora che s'innamorava di Bufalo Bill. Il film finisce bene.-
-Ma è vero che il cinema in America lo fanno in un posto lontano, sull'altro oceano. Come si chiama?-
-Pacifico. Oceano Pacifico. Si è vero. Ho letto che a Hollywood c'è una vera città di cartapesta dove girano i film e gli attori vivono nelle ville di lusso e vanno in giro sulle automobili fiammanti.-
-E ti piacerebbe andarci, laggiù, in quella città dove fanno i film?-
Giovanni ci pensò prima di rispondere.
-Si, mi piacerebbe girare il mondo, andare in America. A New York.-

Potevo stare a Parigi a quest'ora. Se Mario m'avesse dato retta, a quest'ora...

Giovanni s'immaginò Clotilde  ragazza, sottobraccio a un signore sui trent'anni. Entravano nel cinematografo e lei sollevava un poco la veste del vestito buono per salire il gradino. Accadeva prima della guerra, quando le donne portavano ancora le gonne lunghe.
-Debbo andare.-disse.
Quel giorno non s'era fermato nemmeno mezz'ora da Clotilde e gli dispiaceva lasciarla.
-Non ti ho nemmeno chiesto se volevi una tazza di tè.-
Non cercava mai di trattenere Giovanni.
-No, grazie. Mi spiace signora Clotilde, la prossima volta mi fermo di più.-
-Metti sempre la catena alla bicicletta. Stai attento che qua intorno...-
-Lo so, lo so. Non si preoccupi. Arrivederci.-
Giovanni tese la mano a Clotilde, lei mentre lo salutava pensò che  la stranezza di quelle visite del figlio dei Riva forse volevano dire qualcosa.
E rimasta sola in casa si sporse un poco per vedere Giovanni che usciva dal portoncino con la bici e pedalava per tornarsene a casa, ai suoi libri.

Parigi? A Parigi non sarei sola come in certi giorni. Ma quanto durerà questa vita? Sarebbe ancora facile trovarmi un altro uomo. Facile? Si. Se mi ci metto prima o poi ci riesco a non star più sola. Dicono che le donne...Dicono che le donne a certe cose non ci debbono pensare. Ma è difficile. E' difficile. L'altra sera, come potevo star ferma? Ma perché questo viene a trovarmi? E' così ragazzo...Dio mio e se scoppia un'altra guerra anche lui ci andrà. Un'altra guerra? La vincono i fascisti e io starò sempre qui, a cucire. Siamo rimasti così pochi. Dio mio. Dio mio. Mario in Dio non ci credeva, ma qualche cosa pure deve esserci, perché certe volte...Giovanni non sembra uno che vuole la guerra, è diverso dagli studenti. Da quelli che giravano con le bandiere e strillavano per le strade tanti anni fa. Che ridere! Quel giorno, quando gli hanno tirato la merda addosso agli studenti. Erano venuti dalla Manifattura i compagni, e li hanno fatti correre. Oggi alla Manifattura non c'è più nessuno. No, c'è...C'è  Leopoldo.

-Quem cum in Sardinia Pompeius paucis post diebus, quam Luca discesserat, convenisset: "Te," inquit, "ipsum cupio; nihil opportunius potuit accidere; nisi cum Marco fratre diligenter egeris, dependendum tibi est, quod mihi pro illo spopondisti." Quid multa?...Quid multa? questus est graviter; sua meirita commemoravit;...*-
Agnese s'allontanò nel corridoio.

Studia la lingua dei preti.

Altre volte s'era fermata ad ascoltare Giovanni che ripeteva le sue lezioni. E certi giorni Giovanni parlava in una lingua ancor più misteriosa e Agnese stava a sentire incantata.

Io non parlo bene nemmeno l'italiano.

La sera quando andava a letto pensava al signorino Giovanni. Era così serio, come il padre.

Parlano poco.

Agnese s'era convinta che tutti i ricchi fossero di poche parole. Tutti, meno le eccezioni, perché il signor Giulio con lei scherzava.
-Come va la nostra montanara!?- 
Ad Agnese si accendevano le guance mentre prendeva il soprabito di quel signore che portava sempre il cappello degli alpini.
Gli alpini...che emozione quando passavano gli alpini accanto al suo villaggio e salivano verso la montagna. E la nostalgia era come una spina nel cuore di Agnese.
Eppure quel giorno il signorino Giovanni le aveva passato il piatto, solo lui aveva capito che era spaventata. Poi non era più successo, perché Agnese era diventata brava per le faccende di casa e certe volte era Armandina, che ci vedeva poco, a star dietro a lei. E Agnese s'era accorta dello sguardo di Giovanni il giorno che quell'uomo l'aveva toccata sotto le vesti.
Il petto di Agnese si riempiva d'affanno al pensiero che Giovanni la considerasse una svergognata.
Un giorno Giovanni incontrò Agnese in giardino e le disse "ciao!" con un bel sorriso, montava la bicicletta e lei si voltò a guardarlo mentre usciva dal cancello con i libri legati sulla canna.

Andrà dalla fidanzata.

E un altro pensiero le era passato per la mente e l'aveva riempita di tristezza.

Forse parla  la lingua dei preti perché studia da prete. Che peccato...

Quel pomeriggio Giovanni chiese a Clotilde cosa pensava di una nuova guerra. Il loro insegnante di educazione fisica, uno che era stato con gli arditi e il sabato s'appuntava le medaglie sul petto, quella mattina aveva detto:
-Gli inglesi stanno dalla parte del Negus perché noi andiamo a rompere le uova nel paniere. Prima liquidiamo gli abissini e poi facciamo i conti con inglesi e francesi.-
Tutti aspettavano un discorso di Mussolini e i giornali ripetevano che gli abissini continuavano a sconfinare in Eritrea e sparavano addosso agli italiani.
-L'Africa è una scusa. Prima la faranno in Africa e poi contro la Russia. Hanno paura del comunismo.-disse Clotilde.
Era la prima volta che Clotilde pronunciava quella parola con lui.

Poveretta. Sovversivo. Gente losca.

Precise,  le parole tornarono alla memoria.
E Giovanni sentì dentro di se quasi un senso di liberazione per la risposta di Clotilde.
-E perché hanno paura del comunismo?-chiese. E il cuore cominciò a battere più forte.
Lei era incerta, rifletteva sulla risposta migliore. Quella parola...Riguardava qualcosa di così lontano da farla sembrare simile all’evocazione di un sogno oppure a...

Sarebbe così semplice, o tutti ricchi o tutti poveri. Così è la Russia.

E si chiedeva se fosse giusto parlare del comunismo con un ragazzo entrato nella sua vita in quel modo così strano.

Perché hanno paura del comunismo? Il compagno diceva che tutti i potenti del mondo hanno paura da quando esiste  il bolscevismo in Russia. E Mario me l'ha spiegato mille volte. Gli operai...Lui va scuola, parla bene l'italiano, non l'ho mai sentito parlare in dialetto…

-Clotilde, perchè hanno paura della Russia e dei comunisti? Anche a casa mia parlano di queste cose. Io non so bene. Da tempo  avrei voluto chiedere a  lei. A scuola un professore ha detto che il comunismo inganna gli operai...-

Mario era comunista. Io gli sono rimasta fedele. Erano le idee di Mario. Col comunismo la gente del Borgo Vecchio vivrebbe meglio, si, meglio. Perché col comunismo tutti sono uguali. Ma come le dico queste cose? E mi guarda così, in questo modo. E' figlio di  chi è sempre andato in carrozza e i piedi ce l'ha al caldo per tutto l'anno. E se la smettessimo con le carrozze e i merletti delle signore? O tutti ricchi o tutti poveri. Ora glielo dico. E se si offende e non mi viene più a trovare?

Clotilde segnava con il gessetto la stoffa celeste di una abito estivo per signora. Lei, la Rosa Guidi, Assunta, le ragazze che lavoravano alla fabbrica del vetro non avrebbero mai potuto permettersi un vestito come quello.

Non mi risponde. Ha paura di me? E' per via di zio Giulio. Anch'io ci vado alle adunate. Ci vanno tutti. Non è mica colpa mia se le hanno ammazzato il marito.

Clotilde posò il gessetto e lo guardò negli occhi.
-Hanno paura perchè...perchè se ci fosse il comunismo le signore come la Veneziani non parlerebbero a una come me in quel modo.-
Le parole le erano venute incerte sulle labbra, ma la sua voce aveva poi assunto un tono deciso, chiaro. Giovanni allora ricambiò lo sguardo di Clotilde.

Può darsi. E' semplice. Tutti uguali. Io uguale a te e tu uguale a me. Si.

In quel momento la luce del tramonto donò alla stanza il colore dell'ambra. E i capelli di Clotilde divennero oro. Giovanni ebbe davanti agli occhi le due figure nel corridoio della sua casa.

E' semplice. Una cosa del genere non potrebbe avvenire.

Era certo di come Giannantonio Manzi s'era comportato con la piccola cameriera. 

I forti e i deboli. Gli umiliati e gli offesi. Ho poco tempo e dovrò tornare a casa. Alla Villa che un giorno sarà mia.

Dalla strada giungevano le voci del Borgo Vecchio, qualcuno cucinava per la cena. Le narici di Giovanni furono invase dall'odore forte.
-Clotilde, non le ho mai chiesto di suo marito.-
Non l’aveva chiamata signora, lei se ne accorse. Lo vide in divisa, anche lui pronto per la guerra. Mario le aveva detto che non gli piaceva raccontare di quello che aveva visto, ma lei sapeva. Non era mica stupida. Lo sapeva bene quello che avevano passato lassù. Il viso sfigurato dell'amico di Mario. Il cieco con le medaglie. Il sordo con le medaglie. Lo storpio con le medaglie. Tutte le maledette medaglie del mondo per quello che di notte urlava come un cane alla Luna. E le donne, quelle più vedove di lei. Con accanto uomini che non riuscivano più ad abbracciarle. E c'era chi era malato dentro, nell'anima. Perché la guerra non aveva mai finito di combatterla. Erano i peggiori.

No. Tu, angelo mio, non finirai come loro. Tu no. Figlio mio.

Agire, muoversi, fare.

Svelta compagna Clotilde!

-Mio marito l'hanno ammazzato perché difendeva i lavoratori. C'era lo sciopero e i fascisti proteggevano i crumiri che arrivavano col treno da via. Poi occuparono il Comune e la Guardia Regia lasciò che dessero fuoco alla Casa del Popolo e i padroni licenziavano quelli iscritti alla Camera del Lavoro. E c'era la fame. La conosci tu la fame? Mio marito l'hanno ammazzato perché difendeva chi ha fame. E' per questo che è morto.-
Giovanni improvvisamente ebbe caldo. Nonostante la finestra aperta, in quella stanza si soffocava e l'odore di minestrone che saliva dal basso gli diede un senso di nausea. Avrebbe voluto dire qualcosa. No, lui la fame non la conosceva. No.
-Potrei fartela vedere la fame.-continuò Clotilde. La sua voce era chiara, decisa e forte. Le parole si organizzavano una dietro l'altra e non aveva più paura di sbagliare.
-Le vuoi conoscere le ragazze con le mani già rovinate dagli acidi e i fratelli che vanno a fare i garzoni e prendono i calci nel culo? Ti ci porto io a conoscerli. Tu studi, vai in villeggiatura, loro lavorano da quando sono bambini.-
Giovanni fece un gesto, come per mettere in atto un'estrema difesa contro le parole di Clotilde.
-Non ho mai visto la gente di cui mi parla, Clotilde. Io voglio solo capire...-
-Tu sei studente? Tu leggi i libri e scrivi in italiano?-lo interruppe Clotilde.
-Si, ma...-
Non comprendeva cosa volesse dire. Non era un delitto studiare.
-Le ragazzette, i garzoni, i ragazzi come te che vanno in fabbrica a lavorare hanno bisogno di gente che legga, che scriva…Per loro…Le cose non le sanno dire, non le sanno scrivere, eppure sanno, sanno da che parte sta il giusto. E non leggono perché non lo fanno mai. Che bisogno c'è, tanto sono sempre quelli come te che comandano.-
Clotilde tacque, lo sfogo l'aveva resa esausta. Aveva parlato con decisione e rabbia. Lei sapeva e vedeva; il sabato al Dopolavoro ballavano e suonavano, forse in autunno avrebbero messo la radio. I compagni? Quelli come Leopoldo e Tunin? Erano vecchi. E stanchi. Perché erano contro? Non riuscivano a dirlo ai più giovani che avevano avuto i padri e i nonni socialisti. E le donne del borgo vecchio parlavano sottovoce, chiedevano i soldi per la moglie di Guidi con il bambino all'ospedale. Guidi stava in galera da cinque anni.

Chi l'ha denunciato lo conosco, andava anche lui in giro col fazzoletto rosso.

-Scusami.-disse. Era la seconda volta che doveva scusarsi con lui.
Giovanni fece un passo e si avvicinò a Clotilde.
-Non volevo. Non volevo farla soffrire.-disse. Clotilde piangeva.
-Mi perdoni, signora Clotilde.-
Lei lo abbracciò. Se lo strinse forte al petto e per la prima volta Giovanni sentì contro di se il seno di una donna. Anche lui abbracciò Clotilde, rimasero così, in silenzio nella piccola stanza che si faceva buia. Il sole scompariva dietro le montagne, il cielo, azzurro per tutto il pomeriggio, si tingeva di un violetto delicato. Giovanni avrebbe già dovuto essere a casa.
-Dammi del tu.-disse Clotilde-Diamoci del tu. Vuoi? Sei un bravo ragazzo. Sei raro.-
E le sue lacrime bagnarono il viso di Giovanni.
-Torna presto a trovarmi. Ora vai. Vai. E torna a trovarmi. Parleremo, parleremo. Te lo prometto.-

E lo lasciò andar via.

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