Agnese Vairos sedette sul letto
con la voglia di morire.
-L'armadio è vuoto.-aveva detto
Armandina-Ci puoi mettere le tue cose, niente disordine però. Guarda che vengo
a controllare. E la chiave la tengo io.-
Armandina s'era chiusa la porta
dietro le spalle e aveva lasciato Agnese nella stanzetta illuminata da una
lampadina appesa al soffitto tanto basso che quasi Agnese lo poteva toccare.
Che ci faccio io, qui?
E si mise a piangere.
Era tutto il giorno che
desiderava il pianto. La signora Elena le era parsa buona, ma Armandina
aveva detto che doveva rigar diritto e
imparare tutto. La vecchia parlava con la voce di chi possiede un potere assoluto.
Per prima cosa Agnese avrebbe
imparato a servire a tavola, e si cominciava dall'indomani.
E se fosse morta per la
solitudine e il dispiacere?
Se l'avessero trovata tutta
fredda in quel letto straniero? Allora sua madre sarebbe impazzita per il
dolore.
Non è giusto dare un dispiacere a mamma
Anche sua madre aveva pianto
quella notte, dopo che Don Antonio era venuto in casa a dire che sì, c'era un
posto per Agnese giù in città. Sarebbe andata in una famiglia assai ricca e importante,
tanto che lui, quando l'amico Don Cesare gli aveva detto che i Riva cercavano
una ragazza per i servizi in casa, era rimasto a bocca aperta.
Ad Amalia aveva detto:
-Prima di partire un bel bagno. A
queste cose i ricchi ci stanno attenti.-
Poi aveva benedetto tutti e se
n'era andato. Il rumore degli scarponi chiodati di Don Antonio s'era perso in
mezzo ai rascards che guardavano la pianura.
E Amalia quella notte aveva
sentito che Agnese, la maggiore e la più amata dei quattro, piangeva. Allora le
era andata vicino.
-Perchè?-aveva chiesto Agnese.
-Perchè? Perchè tanti perchè? Vai
in città: con i risparmi che ti metto da parte trovi un buon fidanzato. Tuo
padre c'è morto di fatica sulla montagna. Eppoi dai ricchi c'è sempre da
imparare.-
Adolphe aveva sputato sangue sin
da ragazzo e Amalia a trent'anni era rimasta sola con quattro figli. La più
grande era Agnese, gli altri, i maschi, erano ancora agnellini che belavano
troppo. Amalia non l'aveva mai detto a nessuno, ma quando aspettava il primo
figlio, e non sapeva bene nemmeno il motivo, aveva desiderato che fosse
femmina.
E ora incoraggiava Agnese a
scendere in quel mondo sconosciuto, ma lo faceva con la morte nel cuore.
Senza nemmeno spogliarsi Agnese
si gettò sul letto. C'era una vecchia coperta, se la tirò sulle spalle e
ascoltò i lontani rumori di un mondo pieno di pericoli.
E se l'uomo cattivo mi viene a prendere? E' nero, gli occhi ce l'ha rossi
come il diavolo
E le tornavano in mente i
racconti uditi nella stalla. Vicino all'unica mucca si ascoltavano le antiche
storie dei vecchi mentre il gelo avvolgeva il villaggio e la notte era
rischiarata dalla lucerna a petrolio
della cappella di San Giacomo.
Agnese tremò. Sì, pensò, era
meglio la morte.
Ma non accadde niente. Attese e non accadde niente.
Il sonno vinse la paura di Agnese Vairos che si addormentò per la prima volta
lontana dalla stalla, dalla fontana, dalle capre, da sua madre e dai fratelli.
-Oggi vengono i cugini.-disse la
signora Elena.
Giovanni soffocò un
"accidenti!".
Passare tutta la domenica in casa, insieme a quella gente? No! Invento una
scusa e me ne vado
Accadevano fatti strani dal
giorno in cui s'era perso nel Borgo Vecchio. L'insperabile, ad esempio.
-Sai che Armanti sta per morire.-
Gianquinto aveva sibilato la notizia
mentre scorrevano gli ultimi minuti dell'ora di matematica.
-Morire?-
Armanti tutto dava, meno l'idea di uno che da un momento all'altro sta
per andarsene all'altro mondo.
Gianquinto mise la mano sulla
bocca.
-Polmonite doppia.-
Aveva parlato troppo piano.
-Come?-
Giovanni aveva chiesto a voce
troppo alta.
-Silenzio!-
Il professore di matematica,
Cristoferi, si voltò per intimidire la classe. Ancora pochi secondi di tensione
prima del suono della campanella.
Armanti in fin di vita? Allora io sono salvo. Oggi.
Giovanni mosse una mano sul
banco, il suo compagno lo guardò di traverso e
da complice. Si aprì la porta e il Preside entrò insieme a uno
sconosciuto. Il supplente di Armanti non metteva paura a Giovanni.
Sono salvo. Se Armanti mi chiamava era finita, e invece niente da fare.
Tiriamo tutti un sospiro.
-Polmonite doppia.-disse ancora
Gianquinto nel rumore provocato dalla classe che si levava in piedi.
Polmonite doppia? Un mese. Due mesi. Forse non torna sino a giugno. E se ci
rimane? La sua morte è la nostra fortuna.
E Giovanni s'immaginò Armanti nel
suo letto che tossiva, bianco come un sudario.
Lui ora, in questo momento, da oggi, non ha potere. Non è più niente per
noi.
Il Preside parlava. Presentò il
nuovo professore, un giovincello, disse che il Professor Armanti sarebbe stato via per qualche
tempo. Disse che lui, personalmente, avrebbe seguito l'andamento della materia.
Il supplente chinò il capo, poi si riscosse e sollevò la testa. Guardava la
classe.
Ha paura. Meno greco, più libertà.
E quest'idea che la repentina
mutazione dell'ordine naturale delle cose comportasse un cambiamento nella
vita, Giovanni se la portò dietro nei giorni che seguirono. Sino alla domenica
in cui aveva deciso di andare nel Borgo Vecchio alla ricerca di quella donna.
La visita dei cugini si
frapponeva con l'avventura, immaginata da giorni, e l'ordine famigliare. Doveva
trovare una scusa, dire una bugia.
-Ho promesso a Gianquinto che
l'avrei aiutato. Domani lo interrogano in matematica.-
La signora Elena, distratta, rispose:
-Almeno ci sarai quando arrivano
i cugini?-
Giovanni colse una possibilità in
quella risposta insperata.
-Certo. Ho detto a Gianquinto che
non sarei andato prima delle quattro e mezzo.-
Comparve Armandina.
-Signora, cosa comanda per la
ragazzina?-
-Come stabilito. Oggi serve a
tavola.-
Dietro Armandina veniva Agnese,
indossava un grembiule nero, lungo sino a metà caviglia. Giovanni la guardò
appena, il suo pensiero era tutto rivolto a quando sarebbe giunto lassù. Quante
possibilità c'erano di incontrare la Vedova Rossa ? Tutte e nessuna.
-Ce ne freghiamo degli inglesi e
dei francesi. Nel diciannove hanno arraffato tutto!-
La voce di Giulio Riva irruppe
nella mattina domenicale. Di pochi anni più giovane di Alfonso, aveva messo un
po' di pancia. E per questo camminava impettito. Giovanni notò nell'abito di
suo zio la piega perfetta dei pantaloni con due righe tirate a piombo sino
all'ampio risvolto. Alfonso Riva scosse la testa, ma non replicò all'asserzione
del fratello.
Il pensiero di una nuova guerra
passò per la mente della signora Elena.
Giovanni è troppo giovane.
Scoprì per la prima volta che
l'idea della guerra entrava in diretta relazione con suo figlio.
Qualcosa tremò in lei, ma la
certezza dei diciotto anni di Giovanni vinse la paura improvvisa.
In Africa? L'Africa è grande, il Negus mantiene ancora la schiavitù.
Giulio Riva disse qualcosa
rivolto a Giovanni.
-Ti fermi a pranzo?-gli chiese
Elena, quasi per sviare i discorsi su un'ipotetica guerra.
-No, mi spiace per oggi. Ho un
invito al Circolo Ippico.-
E quando Giulio lasciò Villa Riva
portando con se i rancori della nuova Italia contro francesi e inglesi, tutto
sembrò tornare al suo posto e la famiglia si preparò alla messa delle undici in
Cattedrale.
Ma al momento
dell'elevazione, quando tutti chinano il capo davanti al sacrificio del Cristo
Redentore, Elena pensò alla guerra e sperò che se doveva venire fosse molto
presto. Il suo Giovanni era tropo giovane per sparire nelle nebbie dei gas e
nel freddo, come era accaduto al cugino Ludovico, nel millenovecentosedici.
A vent'anni.
-Mariolina non ha fornito
spiegazioni. Credo che Gustavo debba chiederti un consiglio.-
La voce della signora Elena coprì
il bisbiglio di Armandina.
L'anziana intendente di palazzo
mormorava ad Agnese ordini e istruzioni.
-Si fanno vivi solo quando hanno
bisogno.-rispose Alfonso Riva.
La ragazza aveva paura.
Giovanni sino a quella domenica
non s'era quasi accorto della presenza di Agnese nella casa. Qualche tempo
prima, proprio durante il pranzo domenicale Elena aveva posto il problema ad
Alfonso.
-Armandina non ce la fa più a
tener dietro a tutto. Ci vuole un aiuto.-
Alfonso aveva dato il suo assenso
senza troppi commenti.
Su incarico della sua padrona,
Armandina aveva chiesto informazioni al parroco della parrocchia di San
Vittore, quel Don Cesare che aveva un amico valdostano. Don Antonio aveva già
procurato lavoro ad altre ragazze della montagna. La percorreva a piedi
d'estate e d'inverno con gli scarponi chiodati che, a detta di chi lo conosceva
bene, non toglieva neanche per coricarsi. Gran camminatore, Don Antonio un
tempo aveva praticato l'alpinismo e raccontava d'aver conosciuto un suo collega
famoso. Un prete un po' matto e gran bevitore, tal Gorret, detto l'Ours de la Montagne o Grand Gorret,
che aveva scalato il Cervino per la prima volta insieme a Jean Antoine Carrel
in quell'epica e tragica sfida con un altro pazzo venuto dall'Inghilterra. Ma
l'epoca in cui Don Antonio aveva conosciuto Gorret stava alle spalle di tutti:
all'alpinismo di Edward Whimper e di Carrel se n'era aggiunto un altro,
certamente più pazzo e spericolato di quello dei maestri. E infatti i ragazzi
valdostani ci lasciavano la pelle…Che tragedia! E pensare che ora andare sotto
il Cervino e guardare la "gran becca" col naso all'insù, diventava
uno scherzo. Presto le automobili avrebbero percorso la nuova carrozzabile su
cui s'era detto il pro e il contro tra gli alpinisti. Don Antonio era convinto
che c'era voluto Mussolini per metter fine al tormento della salita sino al
piano del Breuil. La bella conca con quell'unico albergo, dove tutto sembrava
in armonia con il soffio di Dio sulla Terra.
Il viso di Agnese era soffuso da
un leggero rossore, pronto a diventare di fiamma per una posata scivolata in
terra oppure un piatto ritirato con troppo rumore. Giovanni quella mattina, al
momento dell'Elevazione, aveva provato il turbamento della solitudine in cui
ogni fedele è sospinto pur trovandosi al centro di una moltitudine.
Giovanni guardò Agnese.
E' sola. In questa cerimonia lei è sola. Ci siamo noi, io, mia madre, mio
padre, Armandina. E c'è lei. E' come se si muovesse in un museo di statue di
cera, ha paura di rovinare una parte di noi. Io mangio e vengo servito.
Sollevò gli occhi dal piatto e
incontrò lo sguardo di Alfonso Riva. Poi guardò sua madre e infine Agnese che
attendeva l'ordine di Armandina. Agnese aveva paura di suo padre?
E' l'ordine naturale delle cose. Come per me: avevo paura di Armanti, ma
ora Armanti è malato e io non ho più paura. Dominici non mi fa paura.
Armandina disse qualcosa, la
signora Elena fece un lieve cenno con il capo. A Giovanni i suoi genitori
ricordarono la coppia del sepolcro etrusco che aveva visitato l'anno prima a
Tarquinia.
I rumori sommessi, i
cenni, le frasi brevi e contenute.
Un giorno moriranno.
Un brivido gli corse lungo la
schiena e senza riflettere fece un gesto. Agnese s'era avvicinata per eseguire
l'ordine di Armandina, ma Giovanni
l'anticipò e le porse il piatto.
-Giovanni.-
La voce di sua madre gli giunse
lontana, forse da una tiepida coltre di morte.
Basta un gesto e viviamo. Vi prego!
In quel rapido incrociarsi di
sguardi, i genitori non colsero quello implorante del figlio.
-Deve imparare.-disse Alfonso
Riva-Tu, c'entri qualcosa?-
La
signora Elena sorrise.
Lei ha paura e io non c'entro per nulla con questo terrore sacro? Come in
casa Veneziani, a quella donna tremavano le dita dopo il rimprovero della madre
di Marco. Chi ci da questo diritto?
Il pranzo domenicale terminò
quasi in silenzio.
La città era piccola, le distanze
brevi.
Giovanni non ebbe bisogno di
proteggersi il volto con la sciarpa quando affrontò le ripide scalinate di
pietra del quartiere popolare arroccato sulla collina. Il freddo dei giorni
precedenti s'era attenuato e tutti quella domenica s'accorgevano di respirare
un tenue soffio di primavera.
Giovanni aveva percorso con passo
veloce la passeggiata sul Lungo Fiume. A quel tempo i terreni ad occidente erano ancora sgombri dai casermoni
che li avrebbero invasi più tardi, dieci anni dopo la fine della guerra che
doveva venire. A quel tempo il suo sguardo poteva spaziare su terre coltivate e
punteggiate da casolari e vigne, digradanti verso colline moreniche retaggio
d'un passato antichissimo in cui un'immensa lingua di ghiaccio si gettava nel freddo
mare dell'ultima era glaciale. Le colline preannunciavano le grandi Alpi e nei
secoli erano state le sentinelle di vedetta contro gli eserciti che in tante e
troppe occasioni, erano venuti dal nord per invadere la pianura e scendere verso
le terre del Sole. Torri merlate e ruderi di castelli s'ergevano sulla sommità
dei cocuzzoli.
Alla sinistra di Giovanni, le
montagne con i picchi imbiancati di neve
e ghiaccio eterno.
Alla sua destra, la pianura e la
campagna con il lento e inesorabile risveglio di ciuffi d'erba verde e gemme.
E al centro di questo paesaggio
in trasformazione c'era lui, Giovanni Riva. Camminava verso qualunque cosa,
purché fosse diversa dalla villa di cui
aveva varcato il cancello.
Questo Giovanni non lo sapeva. Nessun essere umano ha la piena coscienza dell'epoca nuova che si apre in un
dato momento della vita. Sentiva nel petto, è vero, un' ansia mai provata: era,
tutto sommato, l'impazienza di giungere
alla meta e sapere se era possibile l'impossibile. Voleva parlare con una persona
intravista nella penombra di un salone e incontrata in un vicolo nebbioso.
Forse Giovanni voleva solo
giocare, oppure mettersi alla prova. Non gli era mai accaduto prima. Cosa
spingeva veramente il giovane eroe di questa storia verso la meta? Non lo
sappiamo e forse mai lo sapremo, ma possiamo intuire, senza paura di
presunzione, che per lui qualcosa accadeva.
Diciotto anni a quel tempo non
erano né troppi né pochi e Giovanni, lo sappiamo, era ancora vergine, ma
desiderava la donna. E quindi non possiamo escludere che ci fosse in quel gioco
anche un vago progetto di biblica conoscenza. Ma non era la causa prima...o per
lo meno, non lo crediamo. Giovanni quella domenica abbandonò la sua casa, mentì
con sua madre, infranse le regole porgendo un piatto alla serva, provò il gelo
nel cuore al pensiero del tempo che l'avrebbe allontanato dai giorni felici
dell'adolescenza. Questa è la sommatoria di un insieme di dati che possono
venir condensati in una parola: distacco.
E siamo indotti a questa
affermazione con una certezza: fu in quel giorno che si decise la sua
vita.
Nel giorno di festa gruppi di
uomini e giovanotti discutevano davanti ai portoni e un certo via vai attorno
alle due osterie del vecchio quartiere medioevale, mise in allarme Giovanni.
E la frase di suo padre gli
ritornava in mente.
Tu, c'entri qualcosa?
E un dubbio sostituì l'iniziale
baldanza che l'aveva condotto sino alla soglia del Borgo Vecchio.
Io, che ci vengo a fare qui? Oggi in casa della Murialdi danno un
ricevimento e forse si balla.
In un vicolo incrociò tre suoi
coetanei, commentavano la partita di calcio vinta nel pomeriggio dalla squadra
cittadina. Vociavano su questo e quell'altro giocatore. Passò in mezzo a loro
con la certezza d'essere afferrato e sbattuto contro il muro di mattoni rossi
per il solo gusto di dar fastidio a lui, che vestiva panni nuovi, eleganti. Ma
quelli, presi com'erano dai loro entusiasmi per la vittoria, lo ignorarono. Le
voci si persero alle spalle di Giovanni che invece raggiunse rapidamente il vicolo
e il portoncino in cui aveva visto entrare la Vedova Rossa.
Sorpreso per l'estrema facilità
con cui aveva raggiunto la meta, sostò davanti al vecchio edificio.
-E se questa non fosse casa sua?-
E se lo era, cosa doveva fare?
Attendere. E per quanto? Aveva immaginato in quei giorni un fatto che non
sarebbe mai accaduto: la donna s'affacciava
da una finestra stretta e buia e gli faceva un gesto.
Ti conosco, sei quello di casa Veneziani. Vieni su, vieni da me.
Ripetè di nuovo il ritornello.
Poveretta. Sovversivo. Gente
losca.
-Che ci sto a fare io, qui?-
E quella domanda pronunciata a
voce bassa gli diede un grande scoramento. E nelle orecchie c'erano le parole
del padre e nelle ossa il terrore che l'aveva invaso quando il pensiero della
morte dei genitori gli era passato per la mente, dopo aver udito la frase di
malcelato rimprovero.
Tu, c'entri qualcosa?
Ma i passi risuonarono alle sue
spalle. Giovanni si volse e vide la donna esile con un secchio colmo di
carbone. Forse a causa del selciato dissestato o per il peso del secchio, la Vedova Rossa mise un
piede in fallo. Il manico del secchio ondeggiò e pezzi di carbone caddero a
terra. La donna con un sospiro si chinò
per raccogliere.
-Lasci stare signora, l'aiuto
io.-disse Giovanni, si chinò e raccolse il carbone senza guardare la donna. Il
cuore batteva forte.
-Grazie, lei è gentile.- mormorò
Clotilde guardandosi intorno -Potevo slogarmi una caviglia.-
Finalmente Giovanni si volse a
guardarla in volto, lei si massaggiava la mano destra affaticata per il peso.
Quando il carbone fu di nuovo al suo posto, Clotilde cercò di afferrare il
secchio, ma Giovanni l'anticipò.
-Aspetti. E' pesante!-
-Per fortuna sono arrivata. Abito
qui.-disse Clotilde e indicò il portoncino.
-Se mi fa strada...-
A Giovanni la voce morì.
Clotilde lo precedette e appena
fu nell'androne provvide ad accendere la povera lampadina. Giovanni la seguì
per quelle scale ripide che gli mozzarono il fiato. Sapeva che la fatica
c'entrava poco. Il cuore continuava a battere forte.
Lei si fermò sull'ultimo gradino del piano più alto, si
volse verso il giovane e tese la mano per afferrare il secchio.
-Grazie.-disse-Come ti chiami?-
Gli dava del tu.
Potrebbe avere gli anni di mia madre. Certamente è più giovane. Poso il
secchio e me ne vado. Tutto finisce quì.
Rimasero per un momento come
sospesi. A Clotilde il volto del giovane non sembrava del tutto nuovo. Lui
decise che era meglio non fingere e dire la verità.
-Io l'ho già vista
signora.-disse- Forse lei non ricorda: l'altro pomeriggio. In casa della
signora Veneziani...-
Clotilde provò fastidio al
ricordo dell'umiliazione subita davanti a uno sconosciuto. Quando era rincasata
voleva piangere.
-Ah, sì. E allora...-
Per la sorpresa non
sapeva cosa dire.
E anche Giovanni non trovava le
parole per andare avanti. Ma un'idea che passò come un lampo nella sua mente si
trasformò in una frase che dopo averla pronunciata, gli parve subito stupida.
-Sempre a sua disposizione,
signora.-
E guardò altrove. Scelse una
crepa nel muro delle scale, si fissò su quel segno lungo e torto.
Clotilde si limitò a sorridere.
Osservò il volto del giovane, ora leggermente rosso per l'ardire della frase un
po' antiquata, a suo parere certamente fuori luogo nel vecchio borgo popolato
da gente dai modi diretti, pieno di bambini sempre con le ginocchia nere,
minacciati a turno da madri provviste di mani pesanti.
-Fa freddo su questa
scala.-disse- Vieni in casa, la prendi una tazza di tè?-
E mentre infilava la chiave nella
serratura, Clotilde provò piacere al pensiero che quel giorno si concludeva con
un incontro inaspettato.
Giovanni entrò in un alloggio dal
soffitto basso: due stanzette e un cucinino con una vecchia stufa che Clotilde
usava per cucinare e riscaldare l'ambiente. Giovanni avvertì un brivido di freddo
e decise di non togliersi il cappotto. In casa di Clotilde non c'era il
gabinetto. La latrina stava fuori e d'inverno per non buscarsi una polmonite,
bisognava uscire con la maglia di lana e raggiungere lo stanzino in fondo al
ballatoio che veniva usato da tre
famiglie.
Vicino alla stretta finestra
della camera più grande, troneggiava una
vecchia poltrona ricoperta di stoffa fiorata. Sovrastava un basso tavolino
ovale ingombro di aghi, fili e pezzi di stoffa. Giovanni immaginò la donna
mentre cuciva nella luce incerta.
Quella povertà era nuova per lui.
Cosa credevo di trovare?
Ora a Giovanni sembrava d'esser
stato abbandonato di proposito in quel luogo angusto per scontare una pena
lunga un numero infinito di anni, colpevole di chissà quale sconosciuto
delitto. E come nei libri d'avventura, una mano amica presto l'avrebbe
liberato.
E si sorprese a pensare al
vecchio e terribile professor Armanti, anche lui solo nel letto di dolore e
forse prossimo alla morte.
Ed ebbe paura che l'afferrasse di
nuovo il terrore provato mentre vagava fra i vicoli, alla ricerca di una via
d'uscita da quell'universo sconosciuto che era per lui il borgo medievale.
Udì la voce di Clotilde.
-Fai spazio sul tavolinetto. Io
riscaldo l'acqua del tè.-
Non era un ordine, ma non aveva
detto nemmeno "per favore".
Giovanni non trovando altro, posò
quelle cose sulla mensola di marmo di un piccolo comò. Accanto a un cofanetto
di legno laccato, stava incorniciata una fotografia. Era di un uomo ancora
giovane, in panciotto e con il sigaro fra i denti. Sollevava il bicchiere e
dietro di lui si distingueva un ragazzo con un fiasco di vino tenuto
all'altezza del petto.
Suo marito. Quello che hanno ammazzato quando ero bambino. Lei è ancora
giovane, perché non s'è risposata?
Tornò accanto al tavolino ovale e
guardò la poltrona, indeciso fra attendere seduto oppure mettere una qualche
barriera alla familiarità di lei e restare in piedi, al centro della stanza,
stretto nel suo cappotto che gli pareva troppo leggero per il freddo di quella
casa. C'era un'altra soluzione: avvicinarsi pian piano alla porta e sparire,
scendere le scale di corsa e raggiungere il centro. Si sarebbe presentato in
casa Murialdi dove avrebbe inventato un'altra scusa e avrebbe ballato, riso,
accettato anche un bicchiere di Porto per dimenticare le miserie e gli
spaventi. Un'altra bugia, in un pomeriggio di menzogne. Era cominciato con sua
madre, proseguiva con questa donna che l'aveva accolto in casa e gli offriva un
semplice tè, si concludeva presso una famiglia amica. E c'era anche una fuga.
Sembrò a Giovanni che un simile comportamento fosse uguale a quello del ladro
che forza la serratura e porta via il pane dalla casa dei poveri. Ma le parole,
"sempre a sua disposizione signora" che l'avevano fatto arrossire e
provocato il sorriso della donna, a lui erano venute dal cuore. Come dal cuore
era venuto il fastidio per la madre di Marco Veneziani che trattava quasi da
serva l'amica di un tempo.
Clotilde s'affacciò con la teiera
e le tazze.
-Siediti.-disse-Siedi sulla poltrona,
cosa fai lì impalato? Qui fa freddo, ma con un po' di pazienza il caldo della
stufa arriva. Hai fatto bene a non togliere il cappotto.-
Bevvero il tè quasi senza
parlare.
-Fa freddo anche oggi. L'inverno
sembra non finire più.-disse Giovanni prima di posare la tazza.
Bevve l'ultimo sorso di tè.
-Debbo andare.-aggiunse.
Vide il collo magro di lei sotto
la camicetta bianca. Una forcina le era caduta in grembo e i capelli venivano
giù sulla parte del viso meno rischiarata dall'incerto chiarore della lampada
al centro del soffitto. Giovanni non era abituato alla penombra delle case
dei poveri. Lei lo osservava dal fondo di quella penombra.
-Ti chiami Giovanni, e poi?-
-Riva. Giovanni Riva, signora.-
Lei tacque.
-Il lavoro per la signora
Veneziani l'ho terminato, e andrà bene così. Tu stai tranquillo.-disse dopo una
rapida, ma decisiva riflessione.
-Posso tornare?-
Ora Giovanni sapeva di rischiare.
Doveva.
-Perchè vuoi tornare quì?-
La voce di Clotilde s'indurì,
Giovanni temette che tutto potesse naufragare nel malinteso.
-Dimmi, perché vuoi tornare?-
-Non lo so.-rispose Giovanni.
-Mi chiamano la Vedova Rossa. Questo
lo sai?-
-Si, me l'ha detto Marco
Veneziani. Signora, se lei desidera che io non torni mai più, farò quel che
vorrà. Lo giuro.-
E' un ragazzo curioso. I Riva sono una famiglia importante, Giulio Riva era
un buffone, ma peggio degli altri...
Fuori la nebbia tardava a salire, nonostante
l'abitudine e il tiepido calore della stufa
anche Clotilde avvertì il freddo della sua casa.
-Si fa tardi e io debbo
lavorare.-disse-Tu devi tornare a casa, i tuoi genitori non sanno che sei qui,
vero?-
E presa da una subitanea
preoccupazione, aggiunse:
-Non avrai dato per caso qualche
dispiacere a tua madre?-
-Ho inventato una frottola...Non
so bene il perché, ma volevo conoscerla. L'altro giorno in casa dei
Veneziani...Insomma, le pare il modo di comportarsi...Lei è una persona così
gentile.-rispose Giovanni. E lo colse un'improvvisa paura..
-Mi prometta che non dirà a
nessuno della mia visita. Rimarrà un segreto, fra me e lei.-
Clotilde chinò il capo e le sue
dita giocarono per un momento con la forcina.
Sono un bambino, mi comporto come un bambino.
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