mercoledì 28 gennaio 2015

Noi cambieremo il mondo. Di Stefano Viaggio. Parte prima. Episodio due.

Agnese Vairos sedette sul letto con la voglia di morire. 
-L'armadio è vuoto.-aveva detto Armandina-Ci puoi mettere le tue cose, niente disordine però. Guarda che vengo a controllare. E la chiave la tengo io.-
Armandina s'era chiusa la porta dietro le spalle e aveva lasciato Agnese nella stanzetta illuminata da una lampadina appesa al soffitto tanto basso che quasi Agnese lo poteva toccare.

Che ci faccio io, qui?

E si mise a piangere.
Era tutto il giorno che desiderava il pianto. La signora Elena le era parsa buona, ma Armandina aveva  detto che doveva rigar diritto e imparare tutto. La vecchia parlava con la voce di chi possiede un potere assoluto.
Per prima cosa Agnese avrebbe imparato a servire a tavola, e si cominciava dall'indomani.
E se fosse morta per la solitudine e il dispiacere?
Se l'avessero trovata tutta fredda in quel letto straniero? Allora sua madre sarebbe impazzita per il dolore.

Non è giusto dare un dispiacere a mamma

Anche sua madre aveva pianto quella notte, dopo che Don Antonio era venuto in casa a dire che sì, c'era un posto per Agnese giù in città. Sarebbe andata in una famiglia assai ricca e importante, tanto che lui, quando l'amico Don Cesare gli aveva detto che i Riva cercavano una ragazza per i servizi in casa, era rimasto a bocca aperta.
Ad Amalia aveva detto:
-Prima di partire un bel bagno. A queste cose i ricchi ci stanno attenti.-
Poi aveva benedetto tutti e se n'era andato. Il rumore degli scarponi chiodati di Don Antonio s'era perso in mezzo ai rascards che guardavano la pianura.
E Amalia quella notte aveva sentito che Agnese, la maggiore e la più amata dei quattro, piangeva. Allora le era andata vicino.
-Perchè?-aveva chiesto Agnese.
-Perchè? Perchè tanti perchè? Vai in città: con i risparmi che ti metto da parte trovi un buon fidanzato. Tuo padre c'è morto di fatica sulla montagna. Eppoi dai ricchi c'è sempre da imparare.-
Adolphe aveva sputato sangue sin da ragazzo e Amalia a trent'anni era rimasta sola con quattro figli. La più grande era Agnese, gli altri, i maschi, erano ancora agnellini che belavano troppo. Amalia non l'aveva mai detto a nessuno, ma quando aspettava il primo figlio, e non sapeva bene nemmeno il motivo, aveva desiderato che fosse femmina.
E ora incoraggiava Agnese a scendere in quel mondo sconosciuto, ma lo faceva con la morte nel cuore.
Senza nemmeno spogliarsi Agnese si gettò sul letto. C'era una vecchia coperta, se la tirò sulle spalle e ascoltò i lontani rumori di un mondo pieno di pericoli.

E se l'uomo cattivo mi viene a prendere? E' nero, gli occhi ce l'ha rossi come il diavolo

E le tornavano in mente i racconti uditi nella stalla. Vicino all'unica mucca si ascoltavano le antiche storie dei vecchi mentre il gelo avvolgeva il villaggio e la notte era rischiarata dalla  lucerna a petrolio della cappella di San Giacomo.
Agnese tremò. Sì, pensò, era meglio la morte.
Ma non  accadde niente. Attese e non accadde niente. Il sonno vinse la paura di Agnese Vairos che si addormentò per la prima volta lontana dalla stalla, dalla fontana, dalle capre, da sua madre e dai fratelli.

-Oggi vengono i cugini.-disse la signora Elena.
Giovanni soffocò un "accidenti!".

Passare tutta la domenica in casa, insieme a quella gente? No! Invento una scusa e me ne vado

Accadevano fatti strani dal giorno in cui s'era perso nel Borgo Vecchio. L'insperabile, ad esempio.
-Sai che Armanti sta per morire.-
Gianquinto aveva sibilato la notizia mentre scorrevano gli ultimi minuti dell'ora di matematica.
-Morire?-
Armanti tutto dava, meno  l'idea di uno che da un momento all'altro sta per andarsene all'altro mondo.
Gianquinto mise la mano sulla bocca.
-Polmonite doppia.-
Aveva parlato troppo piano.
-Come?-
Giovanni aveva chiesto a voce troppo alta.
-Silenzio!-
Il professore di matematica, Cristoferi, si voltò per intimidire la classe. Ancora pochi secondi di tensione prima del suono della campanella.

Armanti in fin di vita? Allora io sono salvo. Oggi.

Giovanni mosse una mano sul banco, il suo compagno lo guardò di traverso e  da complice. Si aprì la porta e il Preside entrò insieme a uno sconosciuto. Il supplente di Armanti non metteva paura a Giovanni.

Sono salvo. Se Armanti mi chiamava era finita, e invece niente da fare. Tiriamo tutti un sospiro.

-Polmonite doppia.-disse ancora Gianquinto nel rumore provocato dalla classe che si levava in piedi.

Polmonite doppia? Un mese. Due mesi. Forse non torna sino a giugno. E se ci rimane? La sua morte è la nostra fortuna.

E Giovanni s'immaginò Armanti nel suo letto che tossiva, bianco come un sudario.

Lui ora, in questo momento, da oggi, non ha potere. Non è più niente per noi.

Il Preside parlava. Presentò il nuovo professore, un giovincello, disse che il Professor Armanti sarebbe stato via per qualche tempo. Disse che lui, personalmente, avrebbe seguito l'andamento della materia. Il supplente chinò il capo, poi si riscosse e sollevò la testa. Guardava la classe.

Ha paura. Meno greco, più libertà.

E quest'idea che la repentina mutazione dell'ordine naturale delle cose comportasse un cambiamento nella vita, Giovanni se la portò dietro nei giorni che seguirono. Sino alla domenica in cui aveva deciso di andare nel Borgo Vecchio alla ricerca di quella donna.
La visita dei cugini si frapponeva con l'avventura, immaginata da giorni, e l'ordine famigliare. Doveva trovare una scusa, dire una bugia.
-Ho promesso a Gianquinto che l'avrei aiutato. Domani lo interrogano in matematica.-
La signora Elena, distratta, rispose:
-Almeno ci sarai quando arrivano i cugini?-
Giovanni colse una possibilità in quella risposta insperata.
-Certo. Ho detto a Gianquinto che non sarei andato prima delle quattro e mezzo.-
Comparve Armandina.
-Signora, cosa comanda per la ragazzina?-
-Come stabilito. Oggi serve a tavola.-
Dietro Armandina veniva Agnese, indossava un grembiule nero, lungo sino a metà caviglia. Giovanni la guardò appena, il suo pensiero era tutto rivolto a quando sarebbe giunto lassù. Quante possibilità c'erano di incontrare la Vedova Rossa? Tutte e nessuna.
-Ce ne freghiamo degli inglesi e dei francesi. Nel diciannove hanno arraffato tutto!-
La voce di Giulio Riva irruppe nella mattina domenicale. Di pochi anni più giovane di Alfonso, aveva messo un po' di pancia. E per questo camminava impettito. Giovanni notò nell'abito di suo zio la piega perfetta dei pantaloni con due righe tirate a piombo sino all'ampio risvolto. Alfonso Riva scosse la testa, ma non replicò all'asserzione del fratello.
Il pensiero di una nuova guerra passò per la mente della signora Elena.

Giovanni è troppo giovane.

Scoprì per la prima volta che l'idea della guerra entrava in diretta relazione con suo figlio.
Qualcosa tremò in lei, ma la certezza dei diciotto anni di Giovanni vinse la paura improvvisa.

In Africa? L'Africa è grande, il Negus mantiene ancora la schiavitù.

Giulio Riva disse qualcosa rivolto a Giovanni.
-Ti fermi a pranzo?-gli chiese Elena, quasi per sviare i discorsi su un'ipotetica guerra.
-No, mi spiace per oggi. Ho un invito al Circolo Ippico.-
E quando Giulio lasciò Villa Riva portando con se i rancori della nuova Italia contro francesi e inglesi, tutto sembrò tornare al suo posto e la famiglia si preparò alla messa delle undici in Cattedrale.
Ma al momento dell'elevazione, quando tutti chinano il capo davanti al sacrificio del Cristo Redentore, Elena pensò alla guerra e sperò che se doveva venire fosse molto presto. Il suo Giovanni era tropo giovane per sparire nelle nebbie dei gas e nel freddo, come era accaduto al cugino Ludovico, nel millenovecentosedici. 
A vent'anni.

-Mariolina non ha fornito spiegazioni. Credo che Gustavo debba chiederti un consiglio.-
La voce della signora Elena coprì il bisbiglio di Armandina.
L'anziana intendente di palazzo mormorava ad Agnese ordini e istruzioni.
-Si fanno vivi solo quando hanno bisogno.-rispose Alfonso Riva.
La ragazza aveva paura.
Giovanni sino a quella domenica non s'era quasi accorto della presenza di Agnese nella casa. Qualche tempo prima, proprio durante il pranzo domenicale Elena aveva posto il problema ad Alfonso.
-Armandina non ce la fa più a tener dietro a tutto. Ci vuole un aiuto.-
Alfonso aveva dato il suo assenso senza troppi commenti.  
Su incarico della sua padrona, Armandina aveva chiesto informazioni al parroco della parrocchia di San Vittore, quel Don Cesare che aveva un amico valdostano. Don Antonio aveva già procurato lavoro ad altre ragazze della montagna. La percorreva a piedi d'estate e d'inverno con gli scarponi chiodati che, a detta di chi lo conosceva bene, non toglieva neanche per coricarsi. Gran camminatore, Don Antonio un tempo aveva praticato l'alpinismo e raccontava d'aver conosciuto un suo collega famoso. Un prete un po' matto e gran bevitore, tal Gorret, detto l'Ours de la Montagne o Grand Gorret, che aveva scalato il Cervino per la prima volta insieme a Jean Antoine Carrel in quell'epica e tragica sfida con un altro pazzo venuto dall'Inghilterra. Ma l'epoca in cui Don Antonio aveva conosciuto Gorret stava alle spalle di tutti: all'alpinismo di Edward Whimper e di Carrel se n'era aggiunto un altro, certamente più pazzo e spericolato di quello dei maestri. E infatti i ragazzi valdostani ci lasciavano la pelle…Che tragedia! E pensare che ora andare sotto il Cervino e guardare la "gran becca" col naso all'insù, diventava uno scherzo. Presto le automobili avrebbero percorso la nuova carrozzabile su cui s'era detto il pro e il contro tra gli alpinisti. Don Antonio era convinto che c'era voluto Mussolini per metter fine al tormento della salita sino al piano del Breuil. La bella conca con quell'unico albergo, dove tutto sembrava in armonia con il soffio di Dio sulla Terra.   
Il viso di Agnese era soffuso da un leggero rossore, pronto a diventare di fiamma per una posata scivolata in terra oppure un piatto ritirato con troppo rumore. Giovanni quella mattina, al momento dell'Elevazione, aveva provato il turbamento della solitudine in cui ogni fedele è sospinto pur trovandosi al centro di una moltitudine.
Giovanni guardò Agnese.

E' sola. In questa cerimonia lei è sola. Ci siamo noi, io, mia madre, mio padre, Armandina. E c'è lei. E' come se si muovesse in un museo di statue di cera, ha paura di rovinare una parte di noi. Io mangio e vengo servito.

Sollevò gli occhi dal piatto e incontrò lo sguardo di Alfonso Riva. Poi guardò sua madre e infine Agnese che attendeva l'ordine di Armandina. Agnese aveva paura di suo padre?

E' l'ordine naturale delle cose. Come per me: avevo paura di Armanti, ma ora Armanti è malato e io non ho più paura. Dominici non mi fa paura.

Armandina disse qualcosa, la signora Elena fece un lieve cenno con il capo. A Giovanni i suoi genitori ricordarono la coppia del sepolcro etrusco che aveva visitato l'anno prima a Tarquinia.
I rumori sommessi, i cenni, le frasi brevi e contenute.

Un giorno moriranno.

Un brivido gli corse lungo la schiena e senza riflettere fece un gesto. Agnese s'era avvicinata per eseguire l'ordine di Armandina, ma  Giovanni l'anticipò e le porse il piatto.
-Giovanni.-
La voce di sua madre gli giunse lontana, forse da una tiepida coltre di morte.

Basta un gesto e viviamo. Vi prego!

In quel rapido incrociarsi di sguardi, i genitori non colsero quello implorante del figlio.
-Deve imparare.-disse Alfonso Riva-Tu, c'entri qualcosa?-
La signora Elena sorrise.

Lei ha paura e io non c'entro per nulla con questo terrore sacro? Come in casa Veneziani, a quella donna tremavano le dita dopo il rimprovero della madre di Marco. Chi ci da questo diritto?

Il pranzo domenicale terminò quasi in silenzio. 

La città era piccola, le distanze brevi.
Giovanni non ebbe bisogno di proteggersi il volto con la sciarpa quando affrontò le ripide scalinate di pietra del quartiere popolare arroccato sulla collina. Il freddo dei giorni precedenti s'era attenuato e tutti quella domenica s'accorgevano di respirare un tenue soffio di primavera.
Giovanni aveva percorso con passo veloce la passeggiata sul Lungo Fiume. A quel tempo i terreni ad  occidente erano ancora sgombri dai casermoni che li avrebbero invasi più tardi, dieci anni dopo la fine della guerra che doveva venire. A quel tempo il suo sguardo poteva spaziare su terre coltivate e punteggiate da casolari e vigne, digradanti verso colline moreniche retaggio d'un passato antichissimo in cui un'immensa lingua di ghiaccio si gettava nel freddo mare dell'ultima era glaciale. Le colline preannunciavano le grandi Alpi e nei secoli erano state le sentinelle di vedetta contro gli eserciti che in tante e troppe occasioni, erano venuti dal nord per invadere la pianura e scendere verso le terre del Sole. Torri merlate e ruderi di castelli s'ergevano sulla sommità dei cocuzzoli.
Alla sinistra di Giovanni, le montagne con i  picchi imbiancati di neve e ghiaccio eterno.
Alla sua destra, la pianura e la campagna con il lento e inesorabile risveglio di ciuffi d'erba verde e gemme.
E al centro di questo paesaggio in trasformazione c'era lui, Giovanni Riva. Camminava verso qualunque cosa, purché  fosse diversa dalla villa di cui aveva varcato il cancello.
Questo Giovanni non lo sapeva. Nessun essere umano ha la piena coscienza dell'epoca nuova che si apre in un dato momento della vita. Sentiva nel petto, è vero, un' ansia mai provata: era, tutto sommato,  l'impazienza di giungere alla meta e sapere se era possibile l'impossibile. Voleva parlare con una persona intravista nella penombra di un salone e  incontrata in un vicolo nebbioso.
Forse Giovanni voleva solo giocare, oppure mettersi alla prova. Non gli era mai accaduto prima. Cosa spingeva veramente il giovane eroe di questa storia verso la meta? Non lo sappiamo e forse mai lo sapremo, ma possiamo intuire, senza paura di presunzione, che per lui qualcosa accadeva.
Diciotto anni a quel tempo non erano né troppi né pochi e Giovanni, lo sappiamo, era ancora vergine, ma desiderava la donna. E quindi non possiamo escludere che ci fosse in quel gioco anche un vago progetto di biblica conoscenza. Ma non era la causa prima...o per lo meno, non lo crediamo. Giovanni quella domenica abbandonò la sua casa, mentì con sua madre, infranse le regole porgendo un piatto alla serva, provò il gelo nel cuore al pensiero del tempo che l'avrebbe allontanato dai giorni felici dell'adolescenza. Questa è la sommatoria di un insieme di dati che possono venir condensati in una parola: distacco.
E siamo indotti a questa affermazione con una certezza: fu in quel giorno che si decise la sua vita. 
Nel giorno di festa gruppi di uomini e giovanotti discutevano davanti ai portoni e un certo via vai attorno alle due osterie del vecchio quartiere medioevale, mise in allarme Giovanni.
E la frase di suo padre gli ritornava in mente.

Tu, c'entri qualcosa?

E un dubbio sostituì l'iniziale baldanza che l'aveva condotto sino alla soglia del Borgo Vecchio.

Io, che ci vengo a fare qui? Oggi in casa della Murialdi danno un ricevimento e forse si balla.

In un vicolo incrociò tre suoi coetanei, commentavano la partita di calcio vinta nel pomeriggio dalla squadra cittadina. Vociavano su questo e quell'altro giocatore. Passò in mezzo a loro con la certezza d'essere afferrato e sbattuto contro il muro di mattoni rossi per il solo gusto di dar fastidio a lui, che vestiva panni nuovi, eleganti. Ma quelli, presi com'erano dai loro entusiasmi per la vittoria, lo ignorarono. Le voci si persero alle spalle di Giovanni che invece raggiunse rapidamente il vicolo e il portoncino in cui aveva visto entrare la Vedova Rossa.
Sorpreso per l'estrema facilità con cui aveva raggiunto la meta, sostò davanti al vecchio edificio.
-E se questa non fosse casa sua?-
E se lo era, cosa doveva fare? Attendere. E per quanto? Aveva immaginato in quei giorni un fatto che non sarebbe mai accaduto: la donna s'affacciava  da una finestra stretta e buia e gli faceva un gesto.

Ti conosco, sei quello di casa Veneziani. Vieni su, vieni da me.

Ripetè di nuovo il ritornello.

Poveretta. Sovversivo. Gente losca.

-Che ci sto a fare io, qui?-
E quella domanda pronunciata a voce bassa gli diede un grande scoramento. E nelle orecchie c'erano le parole del padre e nelle ossa il terrore che l'aveva invaso quando il pensiero della morte dei genitori gli era passato per la mente, dopo aver udito la frase di malcelato rimprovero.

Tu, c'entri qualcosa?

Ma i passi risuonarono alle sue spalle. Giovanni si volse e vide la donna esile con un secchio colmo di carbone. Forse a causa del selciato dissestato o per il peso del secchio, la Vedova Rossa mise un piede in fallo. Il manico del secchio ondeggiò e pezzi di carbone caddero a terra. La donna con un sospiro si chinò  per raccogliere.
-Lasci stare signora, l'aiuto io.-disse Giovanni, si chinò e raccolse il carbone senza guardare la donna. Il cuore batteva forte.
-Grazie, lei è gentile.- mormorò Clotilde guardandosi intorno -Potevo slogarmi una caviglia.-
Finalmente Giovanni si volse a guardarla in volto, lei si massaggiava la mano destra affaticata per il peso. Quando il carbone fu di nuovo al suo posto, Clotilde cercò di afferrare il secchio, ma Giovanni l'anticipò.
-Aspetti. E' pesante!-
-Per fortuna sono arrivata. Abito qui.-disse Clotilde e indicò il portoncino.
-Se mi fa strada...-
A Giovanni la voce morì.
Clotilde lo precedette e appena fu nell'androne provvide ad accendere la povera lampadina. Giovanni la seguì per quelle scale ripide che gli mozzarono il fiato. Sapeva che la fatica c'entrava poco. Il cuore continuava a battere forte.
Lei si fermò  sull'ultimo gradino del piano più alto, si volse verso il giovane e tese la mano per afferrare il secchio.
-Grazie.-disse-Come ti chiami?-
Gli dava del tu.

Potrebbe avere gli anni di mia madre. Certamente è più giovane. Poso il secchio e me ne vado. Tutto finisce quì.

Rimasero per un momento come sospesi. A Clotilde il volto del giovane non sembrava del tutto nuovo. Lui decise che era meglio non fingere e dire la verità.
-Io l'ho già vista signora.-disse- Forse lei non ricorda: l'altro pomeriggio. In casa della signora Veneziani...-
Clotilde provò fastidio al ricordo dell'umiliazione subita davanti a uno sconosciuto. Quando era rincasata voleva piangere.
-Ah, sì. E allora...-
Per la sorpresa non sapeva cosa dire.
E anche Giovanni non trovava le parole per andare avanti. Ma un'idea che passò come un lampo nella sua mente si trasformò in una frase che dopo averla pronunciata, gli parve subito stupida.
-Sempre a sua disposizione, signora.-
E guardò altrove. Scelse una crepa nel muro delle scale, si fissò su quel segno lungo e torto.
Clotilde si limitò a sorridere. Osservò il volto del giovane, ora leggermente rosso per l'ardire della frase un po' antiquata, a suo parere certamente fuori luogo nel vecchio borgo popolato da gente dai modi diretti, pieno di bambini sempre con le ginocchia nere, minacciati a turno da madri provviste di mani pesanti.
-Fa freddo su questa scala.-disse- Vieni in casa, la prendi una tazza di tè?-
E mentre infilava la chiave nella serratura, Clotilde provò piacere al pensiero che quel giorno si concludeva con un incontro inaspettato.
Giovanni entrò in un alloggio dal soffitto basso: due stanzette e un cucinino con una vecchia stufa che Clotilde usava per cucinare e riscaldare l'ambiente. Giovanni avvertì un brivido di freddo e decise di non togliersi il cappotto. In casa di Clotilde non c'era il gabinetto. La latrina stava fuori e d'inverno per non buscarsi una polmonite, bisognava uscire con la maglia di lana e raggiungere lo stanzino in fondo al ballatoio  che veniva usato da tre famiglie.
Vicino alla stretta finestra della camera  più grande, troneggiava una vecchia poltrona ricoperta di stoffa fiorata. Sovrastava un basso tavolino ovale ingombro di aghi, fili e pezzi di stoffa. Giovanni immaginò la donna mentre cuciva nella luce incerta.
Quella povertà era nuova per lui.

Cosa credevo di trovare?

Ora a Giovanni sembrava d'esser stato abbandonato di proposito in quel luogo angusto per scontare una pena lunga un numero infinito di anni, colpevole di chissà quale sconosciuto delitto. E come nei libri d'avventura, una mano amica presto l'avrebbe liberato.
E si sorprese a pensare al vecchio e terribile professor Armanti, anche lui solo nel letto di dolore e forse prossimo alla morte.
Ed ebbe paura che l'afferrasse di nuovo il terrore provato mentre vagava fra i vicoli, alla ricerca di una via d'uscita da quell'universo sconosciuto che era per lui il borgo medievale.
Udì la voce di Clotilde.
-Fai spazio sul tavolinetto. Io riscaldo l'acqua del tè.-
Non era un ordine, ma non aveva detto nemmeno "per favore".
Giovanni non trovando altro, posò quelle cose sulla mensola di marmo di un piccolo comò. Accanto a un cofanetto di legno laccato, stava incorniciata una fotografia. Era di un uomo ancora giovane, in panciotto e con il sigaro fra i denti. Sollevava il bicchiere e dietro di lui si distingueva un ragazzo con un fiasco di vino tenuto all'altezza del petto.

Suo marito. Quello che hanno ammazzato quando ero bambino. Lei è ancora giovane, perché non s'è risposata?

Tornò accanto al tavolino ovale e guardò la poltrona, indeciso fra attendere seduto oppure mettere una qualche barriera alla familiarità di lei e restare in piedi, al centro della stanza, stretto nel suo cappotto che gli pareva troppo leggero per il freddo di quella casa. C'era un'altra soluzione: avvicinarsi pian piano alla porta e sparire, scendere le scale di corsa e raggiungere il centro. Si sarebbe presentato in casa Murialdi dove avrebbe inventato un'altra scusa e avrebbe ballato, riso, accettato anche un bicchiere di Porto per dimenticare le miserie e gli spaventi. Un'altra bugia, in un pomeriggio di menzogne. Era cominciato con sua madre, proseguiva con questa donna che l'aveva accolto in casa e gli offriva un semplice tè, si concludeva presso una famiglia amica. E c'era anche una fuga. Sembrò a Giovanni che un simile comportamento fosse uguale a quello del ladro che forza la serratura e porta via il pane dalla casa dei poveri. Ma le parole, "sempre a sua disposizione signora" che l'avevano fatto arrossire e provocato il sorriso della donna, a lui erano venute dal cuore. Come dal cuore era venuto il fastidio per la madre di Marco Veneziani che trattava quasi da serva l'amica di un tempo.
Clotilde s'affacciò con la teiera e le tazze.
-Siediti.-disse-Siedi sulla poltrona, cosa fai lì impalato? Qui fa freddo, ma con un po' di pazienza il caldo della stufa arriva. Hai fatto bene a non togliere il cappotto.-
Bevvero il tè quasi senza parlare.
-Fa freddo anche oggi. L'inverno sembra non finire più.-disse Giovanni prima di posare la tazza.
Bevve l'ultimo sorso di tè.
-Debbo andare.-aggiunse.
Vide il collo magro di lei sotto la camicetta bianca. Una forcina le era caduta in grembo e i capelli venivano giù sulla parte del viso meno rischiarata dall'incerto chiarore della lampada al centro del soffitto. Giovanni non era abituato alla penombra delle case dei poveri. Lei lo osservava dal fondo di quella penombra.
-Ti chiami Giovanni, e poi?-
-Riva. Giovanni Riva, signora.-
Lei tacque.
-Il lavoro per la signora Veneziani l'ho terminato, e andrà bene così. Tu stai tranquillo.-disse dopo una rapida, ma decisiva riflessione.
-Posso tornare?-
Ora Giovanni sapeva di rischiare. Doveva. 
-Perchè vuoi tornare quì?-
La voce di Clotilde s'indurì, Giovanni temette che tutto potesse naufragare nel malinteso.
-Dimmi, perché vuoi tornare?-
-Non lo so.-rispose Giovanni.
-Mi chiamano la Vedova Rossa. Questo lo sai?-
-Si, me l'ha detto Marco Veneziani. Signora, se lei desidera che io non torni mai più, farò quel che vorrà. Lo giuro.-

E' un ragazzo curioso. I Riva sono una famiglia importante, Giulio Riva era un buffone, ma peggio degli altri...

Fuori la  nebbia tardava a salire, nonostante l'abitudine e il tiepido calore della stufa  anche Clotilde avvertì il freddo della sua casa.
-Si fa tardi e io debbo lavorare.-disse-Tu devi tornare a casa, i tuoi genitori non sanno che sei qui, vero?-
E presa da una subitanea preoccupazione, aggiunse:
-Non avrai dato per caso qualche dispiacere a tua madre?-
-Ho inventato una frottola...Non so bene il perché, ma volevo conoscerla. L'altro giorno in casa dei Veneziani...Insomma, le pare il modo di comportarsi...Lei è una persona così gentile.-rispose Giovanni. E lo colse un'improvvisa paura..
-Mi prometta che non dirà a nessuno della mia visita. Rimarrà un segreto, fra me e lei.-
Clotilde chinò il capo e le sue dita giocarono per un momento con la forcina.


Sono un bambino, mi comporto come un bambino.

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