mercoledì 16 luglio 2014

"Cafard" 1914-1918

Aveva ventiquattro anni e sognava di partecipare al grande momen­to della storia. Ma quei giorni d’agosto, pieni d’entusiasmo e fiori lanciati ai soldati da donne accorse a salutare i soldati che attraversavano le vie di Parigi, lo colsero lontano dalla patria. Lui, ufficiale, si trovava agli Antipodi. A quei tempi con questo nome venivano definiti i luoghi dall’altra parte del mondo e  il padre dell'ardente patriota, un ingegnere assai facoltoso, riuscì a tenerlo a riparo dalla guerra. Il solo legame fra il giovane e il centro della storia, una guerra mai conosciuta per dimensione delle forze in campo e violenza degli strumenti di morte, era una giovane signora, la sua “madrina di guerra”. Lucette. E lui scrisse a Lucette lettere disperate. Ricordava il loro unico incontro avvenuto nell’estate del 1913, e descriveva la sua  prostrazione. Le raccontò il suo “cafard”, quello scoramento che ogni giorno provava sostando davanti a palmizi rigogliosi e incomprensibili. E descrisse il terribile urlo della sirena lamentosa che ogni settimana avvisava la guarnigione all’arrivo del posta­le. Il suo “cafard” era uguale a quello che provavano milioni di uomini come lui, immersi nel fango delle trincee? Il nostro eroe ne era convinto, anzi si considerava il più disgraziato degli esseri umani. E intanto la vita passava, e con la vita gli anni che pesavano sulle spalle. Le notizie dall’Europa giungevano scarse e dicevano che quella guerra non finiva più, qualcuno era convinto che sarebbe durata tutto il secolo. “E io diventerò vecchio.” Questo pensiero era ormai un chiodo fisso.
Ogni sera il nostro eroe usciva dal circolo ufficiali, poco più di una catapecchia dove veniva servito pessimo cognac, e accendeva l’ultima sigaretta. S’incamminava per strade polverose avvolte in un silenzio che sembrava di morte, dalla spiaggia le voci degli indigeni intonavano canti che incutevano timore e inducevano a presagire la malasorte. E gli sembrava che la sua vita finisse in quel luogo sperduto.
Le lettere che riceveva da Lucette  sconfiggevano il suo “ca­fard”, ma dopo l’entusiasmo tutto ricominciava, come e peggio di prima.
Un giorno al nostro eroe passò per la mente il pensiero temerario di fuggi­re, cambiar nome e arruolarsi nella Legione Straniera che combat­teva in Europa. Comunicò quest’idea a Lucette, ma la risposta della sua madrina non giunse in tempo per dissuaderlo: per lui c’era l’ordine di lasciare l’isola.
Si mossero, girarono per mezzo mondo, poi, e finalmente, la nave salpò alla volta dell’Europa. Le ancore vennero levate  e i motori delle navi spinti sino al massimo della potenza, si tornava a casa perchè la patria, come quattro anni prima sulla Marna,  era di nuovo in pericolo e c’era bisogno del sacrificio di tutti.
Nella primavera del 1918 il nostro eroe giunse in Europa, ma non riuscì a incontrare Lucette. Dalla cittadina normanna in cui l’avevano accantonato scrisse promettendole che presto sarebbe andato a trovarla. Invece lo spedirono al fronte e ci andò con l’entusiasmo del neofita. Due giorni dopo un sergente che gli stava accanto ebbe la testa asportata di netto da un proiettile di cannone. Il sergente decapitato per qualche secondo continuò a muovere le gambe. Lui, dopo aver vomitato anche le budella, ebbe voglia di fuggire, pensava che tutto quello che aveva immaginato nei lunghi anni vissuti in capo al mondo era in realtà qualcosa di mostruoso. Accucciato dietro un muro di un villaggio senza più nome sognò di camminare lungo spiagge deserte e ascoltare i canti not­turni degli indigeni. Ma nella vita è molto difficile tornare indietro. Da quel buco fangoso scriveva a Lucette, la implorava come un bambino di non dimenticarlo e di rispondere ogni giorno alle sue lettere. Accanto a lui altri giovani morivano in quelle ore gravi in cui bisognava salvare Parigi e resistere davanti ad Amiens e Chateau Thierry. Non tutte le sue lettere giunsero a destinazione, erano momenti di grande paura e la posta poteva aspetta­re. E venne l’offensiva, il nemico non ce l’avrebbe fatta a vincere la guerra mondiale che stava per finire ed i poilus  sapevano chi erano i vincitori e chi gli sconfitti. In una bella giornata di settembre un enorme proiettile cadde davanti al nostro ufficiale; di lui e dei quattro soldati che gli erano accanto non rimase niente. Scomparvero dalla faccia della terra, e tutto questo avvenne in un panorama desolato di terra fumante, di alberi e tronchi bruciati e sotto un bel sole di settembre. Nei giorni della vittoria Lucette chiese di lui, ma non ebbe alcuna risposta. Sei mesi dopo la fine della guerra un generale, il padre del caduto le inviò una lettera in cui informava la “madrina di guerra” che il suo figlioccio era eroicamente morto sul “campo d’onore”. Lucette avrebbe voluto andare a trovare il padre del suo sfortunato amico, ma i fatti della vita impedirono un viaggio che a quell’epoca si presentava assai faticoso. E Lucette aspettava il suo secondo bambino. Un monumento venne edificato sul luogo in cui il nostro eroe era caduto, sulla lapide c’erano cinquemila nomi di soldati di cui non s’era trovata nemmeno la piastrina. Più tardi altri eserciti passarono accanto a quel monumento e altre bombe caddero nelle sue vicinanze. Poi la vita riprese e l’Europa trovò finalmente un’ambigua pace: si costruirono le autostrade, la gente divenne più ricca, le gonne delle donne si accorciarono tanto da divenire inutili e gli europei finalmente si conobbero un po’ di più.
Accanto al monumento passa un’auto­strada e oggi milioni di uomini, donne e bambini si fermano di giorno e di notte in un grande parcheggio da cui si può osservare la lastra di pietra corrosa dalla pioggia e dai venti. Fra i tanti c’è un nome.
Lucette non lo dimenticò, nella sua memoria rimase  il volto di un giovane che amava la musica e in un pomerig­gio del 1913 era entusiasta di partire per terre lontane, gli Antipodi. 
17/10/2001                                                                                                                     
Stefano Viaggio

Le previsioni del tempo

Era tornato da un lungo giro d'affari nelle più importanti città d'Europa e ora sedeva nello studio, in casa non c'era nessuno. Sua moglie era andata in ufficio e i due figli, l'avevano salutato in fretta per raggiungere l'università.
Osservò i mobili, gli oggetti, i quadri, le sue pipe e i libri allineati negli scaffali, le penne e le matite, i tappeti...Gli sembrò di non riconoscere niente, di trovarsi in un luogo estraneo. Ma la sensazione, non nuova ogni volta che tornava da un viaggio, si dissolse per trasformarsi in un senso di strana quiete: era come se non fosse mai partito. Le cose infatti erano al medesimo posto di come le aveva lasciate. Gli sembrò impossibile che in due mesi non fosse accaduto niente in quella stanza. Eppure lui era stato lontano, aveva incontrato persone, visto luoghi nuovi, aveva mangiato e bevuto, dormito in alberghi mai conosciuti prima di allora, aveva guadagnato dei soldi.
Forse era il silenzio della casa e l'assenza delle persone più care che gli facevano pensare di non aver vissuto.  Si sollevò dalla poltrona e camminò nella stanza, si avvicinò ai quadri e osservò uno ad uno quei paesaggi alpini che piacevano tanto a sua moglie e invece a lui non dicevano niente, guardò le pipe, ma non ne prese in mano neanche una per paura di spostarle, per evitare che la sensazione sparisse di colpo e non potesse capire. Passò davanti ai libri. Si, era proprio così, nessuno durante la sua assenza aveva toccato quei libri, li aveva presi tra le mani, sfogliati, nessuno aveva avuto la curiosità di sapere cosa c'era scritto su quelle pagine. E questo fatto gli provocò un dolore, come una puntura di spina nel cuore. Poi guardò l'orologio appeso alla parete e si accorse che era fermo. Possibile che la piccola macchina così precisa si fosse fermata proprio nel momento in cui aveva lasciato la stanza e aveva afferrato le valige per uscire di casa? Non ricordava bene l'ora della  partenza due mesi prima e neanche il giorno, ma gli sembrò che fosse attorno alle undici del mattino. Sollevò il polso per controllare l'orologio che gli aveva regalato sua moglie per i venticinque anni di matrimonio e si accorse che erano le undici meno dieci. Ebbe la strana idea che fra dieci minuti l'orologio a muro avrebbe ripreso a funzionare...Scosse la testa mentre una leggera fitta allo stomaco lo avvertiva che il terrore s'impadroniva di lui. Allora andò alla finestra e guardò fuori:  il viale era deserto, non passava nessuno e nemmeno una macchina era parcheggiata lungo i marciapiedi. Gli alberi ancora non avevano messo le foglie perché l'inverno nella città era lungo. Eppure lui era stato lontano. Ne era certo, sarebbe bastato uscire dalla stanza e passare in camera da letto dove c'erano ancora due valige da disfare. Fece per muoversi in direzione della porta, ma ebbe paura e restò immobile. Poi si ricordò di qualcosa. Sollevò ancora la mano destra  e si accorse che la sua pelle era diversa. Per la prima volta nella vita se ne accorgeva. Stava bene, la salute non gli aveva mai dato preoccupazioni e durante il suo viaggio non aveva avuto alcun disturbo; le paure che lo assalivano ora, dinnanzi a quella strana sensazione, non le aveva mai provate. Avvicinò agli occhi la sua mano destra e guardò bene la pelle e le vene e le unghie e infine il palmo della mano con le linee della vita e della morte. Non s'era mai fatto leggere la mano e non credeva in quelle cose. Ma ora la sua mano gli pareva diversa. Si volse verso lo specchio e la sua immagine riflessa gli parve quella di sempre: no, non c'era alcun cambiamento. Forse solo un po' di stanchezza, certo, per i continui cambiamenti d'aereo. Il suo volto era invecchiato? Possibile che in due mesi fosse sensibilmente invecchiato, trasformato, forse appesantito, mentre tutto in quella stanza restava immobile? Non c'era polvere sulle cose e nemmeno i consueti lavori domestici avevano smosso gli oggetti come di solito accadeva, anche di poco, ogni giorno, ogni fine settimana. Tutto rimaneva com'era per due mesi e lui invece invecchiava e di colpo, ora soltanto, se ne rendeva conto? Eppure il tempo era trascorso. Si avvicinò nuovamente alla scrivania e prese tra le mani il giornale, lesse le notizie, lo aprì, provò a sfogliarlo e trasse un sospiro, questa volta di sollievo. Grazie al cielo il tempo era passato! Si, c'erano notizie nuove su persone e cose che  conosceva bene, guardò fra i necrologi per scoprire se ci fossero defunti tra i conoscenti. No, non era morto nessuno. E questo fatto quasi lo disturbò. Poi si accorse che al posto delle previsioni del tempo c'era un piccolo annuncio. Diceva che quel giorno per motivi tecnici non erano riusciti a pubblicare la consueta rubrica, ecc, ecc. Non avrebbe saputo che tempo era previsto per l'indomani. Era abituato ormai a guardare le previsioni in televisione, a leggerle ogni giorno sul giornale, a collegarsi su internet nel suo ufficio o in casa, per la strada...Ma sul giornale di oggi non c'erano previsioni. Poco male, l'avrebbe seguite ugualmente. E se anche la televisione o il computer si fossero rifiutati di dirgli se l'indomani il tempo era brutto o era bello? Impossibile. Pensò di collegarsi, di accendere la televisione, ma questo l'avrebbe obbligato ad uscire dalla stanza e rompere l'incantesimo nel quale gli sembrava d'essere immerso e che lentamente si trasformava in una sensazione gradevole. Si guardò di nuovo intorno poi lentamente si avvicinò alla poltrona e sedette, sorrise e pensò che il tempo era veramente passato, ma lui non se n'era accorto. Solo ora ne aveva la precisa coscienza, e tutto ciò non gli era mai capitato nella vita. Prima di allora era stato come se non si fosse mai accorto di vivere e quelle rughe sul volto, la pelle più secca delle mani, gli occhi leggermente infossati, gli dicevano che doveva prepararsi ad attendere un giorno che si augurò assai lontano, ma che di certo sarebbe giunto. E insieme a questo pensiero, che sembrava grande e profondo, che lo legava al passato e al futuro, che gli faceva desiderare la presenza di sua moglie e dei figli accanto a se, gli venne in mente che in fondo quella delle previsioni del tempo era una mania, una specie di vizio di cui non s'era mai accorto e che lo privava di un piacere che aveva avuto sin da ragazzo. Lo definì con una sola parola: curiosità. Doveva smetterla con le previsioni del tempo.
Praulin 20-2-2004
Stefano Viaggio

L'orologio del mondo 1905

Nel villaggio si diceva che la meridiana era stato l’ultimo  regalo di quel conte di cui solo i più vecchi ricordavano la dritta figura, quando lo vedevano passare tra le stradine strette e salire su per i sentieri verso la montagna. Nella memoria di chi era bambino al tempo della sua morte,  era rimasto “il conte” e pian piano anche il nome era stato dimenticato e restava solo quel titolo che ai più non diceva quasi niente, perché di conti lassù non se n’erano mai visti.
Un tempo il conte era stato fedele al suo re e per qualche strana ragione che non tutti capivano, con il passare degli anni l’aveva odiato e, colto da qualche malvagio sortilegio, s’era unito a un gruppetto di giovanotti esaltati dalle idee francesi sopravvissute a Bonaparte.  Sulla bocca degli uomini suonavano come bestemmie urlate a Dio: avevano provocato il regicidio e la disubbidienza dei figli verso i padri, e così era venuta la guerra, la fame e la miseria. E allora  Santa Madre Chiesa ordinava di bruciare i libri su cui erano stampate le cattive idee, chiunque li possedeva doveva, pena l’inferno, consegnarli al curato e farli distruggere. I falò venivano accesi davanti alle chiese e il Vescovo in persona appiccava il fuoco. E mentre i libri bruciavano tutti cantavano inni di ringraziamento per il pericolo scampato. 
Quei fatti ormai lontani li raccontavano i vecchi nelle sere d’inverno passate nella stalla.
-La congiura contro il re - dicevano - era stata scoperta e solo il conte s’era salvato dalla forca.-
Ma il prezzo era stato l’esilio in una grande casa accanto al villaggio costruito chissà quanti secoli prima a ridosso di un bosco, appena più giù dei pianori coperti di neve anche d’estate per via del vento che soffiava dai ghiacciai. E pochi anni dopo la morte del conte anche la casa era crollata, perché l’acqua di un torrente ingrossato dalla troppa pioggia l’aveva invasa e fatta cader giù in un batter d’occhio. Un segno del cielo anche questo.
Il conte era vissuto e morto nel villaggio dove era nato Armand, ma prima di andarsene all’altro mondo con tutti i suoi peccati, e non aveva voluto un solo prete al suo capezzale, aveva ordinato a un  tal Chiaffredo, valsesiano e pittore vagante, di dipingere sulla facciata di una casa rivolta a mezzogiorno,  una grande meridiana che segnasse l’ora delle più grandi città del mondo.
Era stato il suo regalo alla gente del villaggio, che amava quasi come una famiglia, visto che la sua se ne stava al calduccio in città e l’aveva rinnegato.
Il conte era morto prima che Armand venisse al mondo e quando il bambino aveva chiesto cosa volesse dire la pittura con le facce del sole e della luna e quel bastone di ferro al centro di un cerchio con strani segni, suo nonno aveva risposto:
-É l’orologio del mondo.-
Armand spesso rimaneva a guardare la grande pittura,  così incantato da non sentire nemmeno la voce di sua madre che lo chiamava per mandarlo a radunare le capre.
“E’ lui che fa venire il freddo e il caldo, fa nascere i fiori e suonare le campane quando il sole spunta sopra la montagna e la luna sorge dal bosco.”
Questo si ripeteva il bambino ogni volta che poteva restare solo a guardare il suo grande orologio che gli adulti ora degnavano di un raro e fuggevole sguardo, tanto la meridiana s’era  rovinata per le piogge e il gelo dei lunghi inverni.
Armand viveva lassù.
Le Alpi gli stavano davanti agli occhi e segnavano un confine invalicabile. Solo una volta era sceso al piano, doveva servire il nuovo re in una guerra di cui non capì mai del tutto i grandi motivi. Dopo quella guerra ad Armand avevano detto che ora tutti facevano parte di una patria più grande che si chiamava Italia,  e la capitale di questa Italia sarebbe stata la più bella città del mondo: Roma. Era il posto dove San Pietro e di San Paolo erano stati uccisi da imperatori cattivi e in cui abitava un Papa buono che aveva litigato con un  re pieno di superbia. Armand non aveva mai visto questo re. Ma sapeva bene che ogni anno costui veniva a cacciare camosci e stambecchi nelle valli poco lontane dal villag­gio.
Era una grande festa per chi era chiamato a lavorare per il riposo e lo svago del re, anzi tutti non vedevano l’ora che il banditore venisse su per la montagna ad annunciare la venuta del re. Ma il banditore faceva un giro più corto e la gente del villaggio di Armand non andava a servire il riposo del re. Era  per via di quel conte morto tanti anni prima? Qualcuno sosteneva che il nuovo re non aveva perdonato il conte,  l’orologio portava male e che sarebbe stato un gran bene farlo sparire dalla facciata della casa che s'era trasformata in un fienile. Il nostro Armand, quando sentiva le chiacchiere dei suoi compaesani non diceva mai la sua e fra se pensava che nessuna ragione al mondo valeva quanto l’esser lasciati in pace a cuocere nel proprio brodo. Lui, che aveva fatto la guerra, non poteva vedere ne fucili ne spade. Figuriamoci un signore, fosse pure un gran re, che spara a stambecchi e camosci solo per passare un po’ di tempo all’aria buona dei monti.
Per il nostro Armand la patria rimaneva il villaggio.
I suoi tesori?  Le capre e il bosco con la legna da tagliare. E poi c’erano la neve, la pioggia e il vento che  portava le voci dai pianori coperti di neve dove vagavano le anime dei morti condannati al Purgatorio. Così dicevano i vecchi.
Armand prese moglie e nacquero tre figli maschi, il terzo, Leo­pold, venne al mondo a una distanza di quindici anni dagli altri due e il curato disse che era una benedizione di Dio. E così Armand dovette pensare a un’altra bocca da sfamare. Conosceva gente dei villaggi sull'altro versante della montagna che aveva deciso di andarsene in Francia, ma lui sentiva di essere troppo vecchio per valicare le Alpi e affrontare il mondo. Se i pericoli c’erano al villaggio per via delle malelingue, figuriamoci così lontano!
E allora continuò a lavorare, lavorare, lavorare. Ogni tanto Armand sentiva il fiato che se ne andava via dal petto, era come un lento risucchio e doveva sedersi con le spalle appoggiate a una pietra. Restava così, a guardare il cielo e sentiva la vita, d’un tratto, che si faceva più lontana. Ma, e si stupiva, non provava paura per questo.
Ogni tanto guardava i suoi figli e si chiedeva quando sarebbero scesi al piano. Ora c’era il treno, la cosa lunga che mandava fumo: era una macchina straordinaria, dicevano, ma lui non ci sarebbe mai salito sopra. Di questo potevano star ben certi! E Armand aspettava il postino con la carta colorata nella bisaccia per annunciare che i suoi figli, uno ad uno, dovevano scendere in basso a servire il re. Pronti a fare una guerra per il re, come era successo a lui. Si chiedeva quando sarebbe accaduto,  e allora andava a guardare il suo vero e unico amico: l’orologio solare ormai tanto scolorito che si faticava a leggere i nomi delle città del mondo.
E pensava  al re e ai suoi figli, poi faceva una preghiera.
“Orologio del mondo, vai più piano.”
Ma intanto il tempo passava. E venne il postino che si portò via prima Antoine, poi Joseph. Armand continuò a lavorare nel bosco, anche quando il fiato mancava nel petto. Ma un giorno venne lassù il dottore per dare un’occhiata alla moglie del mugnaio. Il dottore già anziano, portava una grande barba e parlava con la voce forte come un tuono. Armand aveva paura di quell’uomo che conosceva i misteri della vita e ti guardava dentro per capire se eri vivo oppure prossimo alla morte. Il dottore ascoltò il cuore e i polmoni di Eufrasie, scosse la testa e il mugnaio chinò il capo per guardare il pavimento di terra polverosa. Il dottore prima di salire sul mulo diede uno sguardo all’orologio solare, poi si rivolse alla gente e disse:
-Ero ragazzo quando il conte morì, me lo ricordo bene. E’ gente che  non esiste più, è come questa meridiana scolorita. Non serve più e non servirà mai più a niente. Un giorno dovre­te lasciare il villaggio e scendere in basso, non potete più vivere insieme alle bestie. Il vostro orologio s’è fermato per sempre!-
E se ne andò in groppa al mulo senza aggiungere una parola.
Era stato in quel momento che Armand aveva provato un gran freddo nel petto. Tutti avrebbero dato ragione al dottore e avrebbero cancellato l’orologio. Con chi avrebbe parlato? Il mugnaio stava con la testa china e aspettava, gli altri se ne tornavano a casa oppure ai propri affari, i bambini nella loro innocenza giocavano attorno alla vecchia fontana. Fu in quel momento che una grande nuvola nera oscurò il sole.
“Ecco il segno! Ha ragione il dottore…”mormorò Armand.
La grande meridiana solare era un arnese vecchio e inutile. I nomi delle città del mondo se l’era mangiati il tempo, fra poco la nuova neve avrebbe cancellato una volta per tutte anche il ricordo di luoghi lontani e per sempre irraggiungibili, ma che da qualche pure esistevano. Ne era certo.  La nube passò e il sole tornò a battere sulla meridiana, ma ora Armand non aveva più speranze nel cuore. Voltò le spalle all’orologio del mondo e se ne tornò a casa. Quella sera andò a letto con un’idea fissa nella testa: bisognava andare al piano, lasciare il villaggio al più presto prima che il suo orologio scompa­risse del tutto. Sì, via!
Fu quella notte che Armand morì, nel sonno, senza aver comunicato la decisione a sua moglie.
Natalie dopo il funerale andò dal curato per chieder consiglio e si fermò a parlare col merciaio ambulante.
Laggiù cercavano donne per un lavoro nuovo in un grande capannone, disse il merciaio, e forse anche per Leopold c’era da fare perché si diceva che vicino alla ferrovia avrebbero costruito una fornace più grande di tutte quelle che c’erano state prima.
Natalie allora riunì i suoi figli e disse che non era più possi­bile vivere lassù, ora che il loro padre era morto. I figli non discussero nemmeno, risposero che già da tempo pensavano di scendere in basso e prender moglie.
Della famiglia di Armand nessuno tornò più al villaggio per molti anni e nessuno parlò dell’orologio del mondo. Solo a Leopold ogni tanto veniva in mente suo padre, lo ricordava impalato a  guardare il lento cammino della meridiana, da una città all’altra, da un continente all’altro. Questo era il ricordo  che Leopold aveva di suo padre.


Praulin 1/7/2001    
Stefano Viaggio

Controcampo 1941

Buongiorno signor  Commissario, posso? Si, mi siedo qui… Grazie. La mia è una confessione. Sono venuto a confessare, appunto, un delitto. Questa mattina alle ore otto e  trenta  sono mi sono recato nella villa del regista Albert Legrand e l'ho ucciso  con  un colpo di pistola alla nuca…Non provo sensi di colpa e non voglio sottrarmi alla giustizia. Perché mi guarda così…Commissario non dica niente: lei è molto giovane e io sono vecchio. Quanti?  Settantatre: sono nato  nel  millenovecentotrentadue  e  molto  lontano  da qui. Che bel  sole  c'è  oggi  e guardi il mare. Mi scusi... Perché ho commesso un delitto? Dovrà  ascoltarmi con attenzione...Non sono sicuro di spiegare tutto quello che   è successo in  questi ultimi due anni…e anche prima...prima che lei nascesse, signor Commissario. Albert Legrand era una  persona  molto nota  e  il mio delitto farà muovere la stampa e la televisione di mezzo mondo. E in fondo, a me va bene. Molto bene. Fra poco i giornalisti  si precipiteranno nella villa e troveranno il suo cadavere. Un  colpo di  pistola alla nuca: è un'esecuzione. Non lo nego… Questa  è l'arma del delitto. Posso posarla qui?  Oppure...No. No, tenga pure con le dovute attenzioni…Ho usato un’arnese del genere una sola volta nella vita…Dicevo: un esecuzione. Si. Ho eseguito una condanna a morte. Stia tranquillo: sono io che l'ho pronunciata, ho fatto tutto da solo. Vede,  signor Commissario, il mio un mestiere particolare. Restauro pellicole  cinematografiche. Perchè inizio questa storia  dal  mio lavoro?  No, non è un fatto tecnico. Sono  nato  in  un villaggio che non esiste più da molti anni, anzi, è  scomparso dalla carta geografica.  Quelli  che ci abitavano vennero uccisi. Tutti. Lei,  ha  mai visto  uccidere cinquemila persone? No. Non ha mai visto  uccidere cinquemila persone. No. Non  sono pazzo. E'  accaduto. Era il millenovecentoquarantuno. Faccia il conto degli anni, signor Commissario. Allora avevo nove anni e dei cinquemila  miei compaesani mi salvai solo io. Li vidi morire tutti. Lei mi  capisce  signor  Commissario,  comincia a  inquadrare  la  situazione? Certamente ha sentito parlare dei campi di sterminio, delle camere a gas, dei forni. Ha mai parlato con  una persona  che a dieci anni ha imparato cosa  vuol  dire trovarsi all'improvviso nel deserto? Ho una buona memoria. Ricordo molto bene mia madre e ricordo le mie tre sorelle maggiori e le loro trecce. Mi divertivo a tirarle quelle trecce. E mio nonno. Il cavallo di mio nonno era grande, alto. Io sognavo di salirci sopra. E ci sono riuscito. Era bello guardare il mondo dall'alto di quel cavallo. Uccisero anche il cavallo. Nel villaggio non doveva  rimanere più nessuno. Zero. Via. Tabula rasa. Noi  avevamo crocifisso  Gesù Cristo. Ha mai sentito parlare di questa  storia? E'  una  vecchia storia, signor Commissario! E oggi  si  fatica  a pensare che ci fosse gente che ci credeva. Oggi anche il Papa...Ma allora, no! Altre volte i nostri vicini cristiani erano  venuti con falci e asce. Ma poi, tutto era ricominciato. Nel nostro villaggio erano  vent'anni  che non succedeva più  niente  e  noi evitavamo  di passare per quello che stava oltre il bosco,  a  una trentina di chilometri. Quelli di laggiù ci odiavano sul serio. E tiravano la merda e le pietre contro i nostri preti. I rabbini? Si…il  cappottone nero e i riccioli. Con il cappello grande, floscio. Li ha mai visti,  signor Commissario? No? Non ha mai visto un rabbino...Ha ragione. Mi scusi. Cercherò di venire al sodo. Come  dice?  Le interessa il mio villaggio? Anche se ho  una  buona memoria, ero pur sempre un bambino: mi ricordo del fabbro, si,  il maniscalco;  sono mestieri che oggi non esistono più. E del  falegname.  Ricordo quel falegname, mi regalava pezzetti di legno  per costruirci  i  pupazzi e giocare. E cos'altro? Ah,  si.  D'estate, quando  la  neve si scioglieva c'era molto fango  per  le  strade. Allora  l'asfalto non sapevamo nemmeno... Anche quel giorno  c'era molto fango. Quale giorno? Non posso ricordare il giorno  preciso, credo  che fosse di luglio. L'aria era tiepida, ricordo.  Si, signor Commissario, se ha pazienza prendiamo  un libro  di  storia e verifichiamo la  data precisa.  Ma non credo che il numero di un giorno  sia  importante per  lei. Forse per me! Non crede? Ora immagini un soldato.  Veramente  non era un soldato...Un tenente, si, i gradi erano  quelli. Ci ho pensato tanto…Un tenente che prende un bambino per un braccio, delicatamente. Delicatamente…E porta  questo bambino sull'orlo di una fossa. E'  sui  trent'anni. Dirige.  Il massacro della gente del mio villaggio? Ho capito, lei comincia a inquadrare la situazione…Dirige un film. Non ci crede, signor Commissario?  Ora le spiego: quando loro vennero a prenderci radunarono  tutta  la gente sulla piazza principale…intanto avevano bruciato la Sinagoga...I rabbini piangevano e loro calpestavano i rotoli. I  Rotoli! Lei  è religioso signor Commissario? Non troppo. Ma suo  padre e sua madre sono cristiani. E' fortunato ad avere i genitori ancora in vita…Allora immagini suo padre, sua  madre, sua nonna, che vedono il crocifisso ridotto in mille pezzettini  e gettato in una pozzanghera e poi coperto di sterco. Loro facevano così dei nostri rotoli. L'Antico Testamento...La Legge!...Eravamo rimasti?  Ah, si: a quando ci radunarono al centro del villaggio. C'era un ucraino che urlava. Disse che avremmo dovuto trasferirci  in un posto poco distante, a lavorare per coloro che ci liberavano dai  russi. E dai  comunisti.  Diceva  che c'era un campo  dove avremmo potuto stare. Allora ci mettemmo in marcia, tutti in colonna. Mia sorella maggiore  mi teneva per mano, mio nonno lo sorreggevano a  braccia due  studenti  della scuola rabbinica. No...No. Guardi,  non  sto inventando  niente. Tutto questo era stato…come dire? Cancellato dalla  mia  memoria. Poi è riapparso. A  un  certo punto separarono gli uomini dalle donne e i bambini, a noi ordinarono di  sedere  su un campo di grano che era stato mietuto  da  pochi giorni.  Portarono via gli uomini, anche mio nonno. E io non  compresi  il perché le donne e la ragazze più grandi si mettessero  a piangere.  Non ricordo urli. No. Solo il pianto e il silenzio  di quel cielo azzurro sulle nostre teste. E loro ci guardavano indifferenti.  Si  limitavano a tenerci sotto il tiro  dei fucili.  Mi scusi? Ha ragione: qui fa troppo caldo. Si udivano in  lontananza  rumori.  Colpi? Si, era la mitragliatrice.  Poi giunse  un camion e c'era quello che dava gli ordini. Il regista. Cominciò  a urlare e dava del cretino a un  sergente. Quando si calmò ordinò ad un soldato che aveva una cinepresa  di filmarci, noi stavamo seduti in quel campo di  grano.  I colpi  lontani cessarono, fu allora che ci ordinarono di  alzarci, ricordo che mia madre mi prese per mano e accostando il suo  corpo al  mio, cercò di chiudermi gli occhi. Quello che aveva  detto  di filmarci  salì su un camion e  se ne andò avanti, noi camminammo  per  un chilometro. Forse. Tutti gli uomini erano dentro una grande fossa, tutti morti signor Commissario. Ora toccava alle donne e ai bambini. E così fu. Ma c'è un particolare: tutto veniva  filmato. Ora le spiego. Avevano piazzato la cinepresa in cima di una montagnola e  facevano  avvicinare le donne a gruppi di dieci. Mi scusi: un altro particolare. Prima le facevano spogliare, avevano fatto così anche con gli uomini. Nel gran mucchio di vestiti, mi viene in mente ora… cercavo il cappello di mio nonno e la sciarpa di mio padre.  Mentre attendevano  il turno, le donne pregavano. Mia madre  si  stringeva attorno  le  sue figlie e mi chiudeva gli occhi. Ma  a un  certo punto quello che dava gli ordini al soldato della cinepresa  venne verso di noi e disse a mia madre di dargli il bambino. Cioè io. Credo che in quel momento mamma pensò che mi sarei salvato. Ed ebbe ragione. Il regista aveva bisogno di una comparsa. Una comparsa? Si, ha capito bene signor Commissario. E per questo mi misero  davanti  a un'altra  macchina da presa. Cioè, le spiego. Io  davo le spalle  a una seconda macchina da presa, mi capisce? Un set quasi professionale. Le donne venivano avanti e loro mitragliavano. E io  fungevo da  quinta per un controcampo, era una scelta artistica. L'idea di  quel signore  in  divisa era che io avrei visto  le  donne,  mia madre, le mie sorelle morire mentre una voce, lo  speaker del cinegiornale avrebbe detto: "un bambino ariano assiste alla  liberazione  della sua terra". Lui voleva realizzare questo.  Mi  comprende, signor Commissario? Ma a un certo punto quel signore  salì sulla  montagnola a dare ordini al primo operatore. E fu  l'errore del  regista che, poi, non era  un  gran regista: quando si fanno quelle cose non  bisogna  apparire, si  sta dietro la macchina da presa, e basta! E lui commise  questo errore.  Ma ne commise un altro: quando tutto finì, dopo  che  mia madre e le mie sorelle caddero nella fossa. Prima erano cadute mia nonna e le mie zie...Dicevo, quando tutto finì, quel  signore  venne da  me e mi prese per un braccio, mi portò sull'orlo  della  fossa senza preoccuparsi se l'altra cinepresa, la mia, continuava o no a filmare e tirò fuori la pistola. Me la puntò alla tempia. Io mi volsi  e lo guardai, avevo dieci anni, lui mi disse nella  nostra lingua, chissà come mai conosceva l'yddish, che ero stato un  buon attore  e  meritavo  un premio. Ti uccideremo  dopo. Disse  così  Signor Commissario. Però mi dimenticarono. Non so perché, non l'ho  mai saputo, ma dimenticarono di uccidermi. E mi ritrovai solo, a molti chilometri da quella fossa e dal mio villaggio; ricordo come  ora che  c'erano tante stelle nel cielo e un gran profumo  di  campagna attorno a me. Sentivo i rumori della notte, gli uccelli, i grilli, e  allora, fu allora che dimenticai tutto quello che avevo  visto. Per  la verità, signor Commissario, non dimenticai: nascosi.  Ecco quello  che mi capitò. Ci ho pensato a lungo. Nascondere una  cosa del  genere  è  possibile! Ma per quanto e perché?  Sono  domande legittime,  lei  se le porrà e anche l'opinione pubblica,  quando leggerà la storia del mio delitto. Quanto? Sino al momento in  cui ho  rivisto  il  film. Perchè? Per sposarmi, fare una  vita  come tutti,  avere un figlio. Anna non ha mai saputo...E' morta  cinque anni fa. E mio figlio in questo momento sta leggendo  una  lettera: vive all'estero, è molto preso dal suo lavoro. E' un uomo d'affari e ci vediamo solo due volte all'anno. Io sono molto  orgoglioso  di mio figlio. Fui raccolto da una contadina che mi  tenne con se, non tutti ci odiavano da quelle parti. E dopo la guerra me ne  andai  via. Che vuole? Ero cresciuto e potei approfittare  di alcune circostanze. Lei non può nemmeno immaginare cos'era l'Europa in quei mesi, gente che andava e veniva...Eserciti...Ho studiato  da  autodidatta e a vent'anni mi sono iscritto a un  corso  di cinematografia.  Ho fatto il montatore cinematografico, forse  lei avrà  letto il mio nome in coda a documentari sull'industria e  su grandi  opere  d'arte.  Ho studiato anche un po' di chimica e  mi  sono specializzato nel restauro delle vecchie pellicole. Nessuno lo sa, ma ci sono veri e propri tesori nascosti nei  cassetti... Ho  fatto una  vita normale, ad Anna avevo detto che i miei genitori  erano morti durante un bombardamento. Poi Anna è morta e io sono  andato in pensione. Ma non ho smesso di lavorare, mi chiamano ancora ed è per  questo  che ho incontrato il signor Legrand. No, non  mi  ha chiamato  lui.  L'ho riconosciuto. Era il  giovane  ufficiale  che dirigeva  il film. Proprio lui. Pensi un po'...Solo uno  spezzone, pochi metri. Si e' salvato! E'... in questa scatola. Potrà vederlo  anche lei, non è uno spettacolo edificante per l'umanità.  Ci sono io di quinta che guardo i miei parenti mentre vengono mitragliati.  Cadono  nella fossa e i soldati scendono a disporli  ben bene: a lavoro ultimato dev'esserci posto per tutti. E c'è Legrand che  mi  prende per un braccio e mi porta sull'orlo della  fossa, estrae  la pistola e mi fa grazia della vita. Potrà vedere  tutto…signor Commissario. E confronti quel signore con queste fotografie di  Legrand in Argentina. E' proprio lui...E osservi queste  di  Legrand sul set di un film girato laggiù, nel millenovecentoquarantasette.  Stia  tranquillo! Non avrei ucciso un uomo  se  non fossi sicuro che...In questa busta c'è la documentazione  completa su Legrand, il regista che ha sfiorato per ben due volte  l'Oscar! Lei li ha visti i film di Legrand? No? Non li ha visti. Mi  scusi, ma lei non va mai al cinema? Non va mai al cinema. Ho capito…Mi deve  scusare...Abbia pazienza. E  mi  sono chiesto per lungo tempo  cosa  dovessi  fare...In fondo, lui, Legrand, non dava mica gli ordini di sparare, dirigeva solo un film che poi fu distrutto. Mi aveva anche salvato la vita. Ci ho pensato  per due anni, da quando mi hanno portato questo pezzo  di pellicola.  Comprato, s'immagini! Su un mercato di robivecchi  in California. Pensi un po'! In California...Quelli che avevano visto cosa c'era dentro avevano capito e s'erano messi paura. Sa,  signor Commissario, la gente non ama mischiarsi in cose  come queste.  E' gente che viaggia molto. Intellettuali, ma...E se  poi qualcuno  viene  a sapere? E' meglio evitare i pasticci.  Mi  hanno lasciato  il  film: pochi minuti di girato. E quello che  si  era nascosto è tornato vivo in me. Forse è un bene, Dio mi perdoni per quello  che dico, che Anna sia già morta e mio  figlio...L'abbiamo educato bene il nostro ragazzo. Avrei potuto farci molte cose  con questo,  anche dei soldi. Molti! Ricattando Legrand. Un idea,  non le pare? Lo sa come si rifugiò in Argentina? Furono i preti,  in Francia.  Si nascose in un convento il regista di "Il fiore  e  il prato", c'è tutto là dentro. Può leggere le critiche..."Il fiore e il  prato"  è  un bel film. Un grande film di montaggio!  E  mi  è dispiaciuto  quando  hanno  preferito  l'altro. Sinceramente.  E' avvenuto  sei  mesi  fa...I giornali ne hanno  parlato. Ha  letto? Legrand  era vecchio e avrebbe coronato bene la carriera prima  di morire.  Il  vero nome di Legrand? Klaus  Shultz, comunissimo  in Germania.  Prima  della  guerra aveva frequentato  una scuola  di cinema.  Il  nuovo cinema della nuova Europa judenfrai!  Dicevano così. Ci ho pensato molto, cosa dovevo fare? Lasciarlo vivere? No. E allora sono andato a trovarlo. Debbo dire che mi  hanno facilitato l'esperienza, i contatti, le amicizie che mi hanno permesso  di poter avvicinare questo grande regista. Legrand cosa ha fatto? Mi ha  sorpreso.  Quando gli ho mostrato un fotogramma del  film,  ha detto soltanto: "Norman, quell'imbecille. Non ha distrutto tutto." Non  so chi sia Norman, forse è  morto da anni. E un nome,  non aiuta. Avevo già estratto la pistola e lui mi  ha  guardato, forse  si  aspettava di poter parlare.  Per  capire, contrattare, spiegare. Ma invece gli ho detto di inginocchiarsi. Vedrà,  signor Commissario, le ragazze stanno in ginocchio...Lui ha obbedito.
Aosta 4-7-1997 
Stefano Viaggio

martedì 15 luglio 2014

La luce di mezza sera

Quando vorresti scrivere e non ci riesci è come una malattia. L’ha detto qualcuno oppure sta scritto in un libro perso in chissà quale trasloco. Comunque, è vero. Da molto tempo, forse anni, cerco di descrivere ciò che provo quando mi accorgo che il mondo intorno a me è illuminato da una luce che chiamo di mezza sera. In primavera, mentre la luce del giorno tarda a scomparire, la notte non avvolge ancora tutte le cose; la luce dei lampioni si fa più viva e combatte la sua battaglia con quella del sole che se ne va. D'inverno invece le insegne luminose prendono rapidamente la forma che darà corpo alla notte, ma c'è un momento in cui la luce non è forte abbastanza per occupare interamente lo spazio visivo che ci sta davanti. E’ come un breve duello tra la tenebra del naturale susseguirsi del tempo e l'incerto chiarore di un'altra luce che ci stupisce e ci conforta. Forse, se fossi vissuto all'epoca dei primi lampioni a gas e dei tram a cavallo, questa particolare sensazione primaverile e invernale l’avrei avvertita in modo diverso, non avendo a disposizione i mille segnali luminosi per orientarmi quando il sole è appena tramontato e gli occhi debbono abituarsi a percepire le cose in modo differente. E certamente non avrei provato questa emozione di sospensione, che definirei moderna, mentre le macchine scorrono sulla strada, si avviano quando scatta il verde del semaforo, la gente entra ed esce dai negozi, i fidanzati si prendono per mano e io osservo tutto questo attorno a me con un battito del cuore irripetibile. C’è solo per un momento e non sempre avviene. Ed è allora che ti  senti portar via verso altre spiagge bagnate da altri mari. Ti vengono in mente ricordi che non avresti mai pensato di possedere e pensi che tra poco varcherai la soglia di casa e fra qualche ora ti infilerai nel letto per riposare affinché domani ricominci la vita. E infatti la luce di mezza sera è come la linea d’ombra di Conrad, è quel vago confine che varchi per dire: anche oggi ce l’ho fatta. E ti senti un po’ morire e un po’ rinascere, e in questo modo ti colleghi a tutti quelli che sono venuti prima di te e che verranno dopo. E, visto che la luce di mezza sera non sempre si accende nel tuo cuore, speri di vederla ancora per i tanti anni che ti auguri d' avere davanti.
Aosta 23/3/2007  
Stefano Viaggio