Aveva
ventiquattro anni e sognava di partecipare al grande momento della storia. Ma
quei giorni d’agosto, pieni d’entusiasmo e fiori lanciati ai soldati da donne
accorse a salutare i soldati che attraversavano le vie di Parigi, lo colsero
lontano dalla patria. Lui, ufficiale, si trovava agli Antipodi. A quei tempi
con questo nome venivano definiti i luoghi dall’altra parte del mondo e il padre dell'ardente patriota, un ingegnere
assai facoltoso, riuscì a tenerlo a riparo dalla guerra. Il solo legame
fra il giovane e il centro della storia, una guerra mai conosciuta per
dimensione delle forze in campo e violenza degli strumenti di morte, era una
giovane signora, la sua “madrina di guerra”. Lucette. E lui scrisse a Lucette
lettere disperate. Ricordava il loro unico incontro avvenuto nell’estate del
1913, e descriveva la sua prostrazione.
Le raccontò il suo “cafard”, quello scoramento che ogni giorno provava sostando
davanti a palmizi rigogliosi e incomprensibili. E descrisse il terribile urlo
della sirena lamentosa che ogni settimana avvisava la guarnigione all’arrivo
del postale. Il suo “cafard” era uguale a quello che provavano milioni di uomini
come lui, immersi nel fango delle trincee? Il nostro eroe ne era convinto, anzi
si considerava il più disgraziato degli esseri umani. E intanto la vita
passava, e con la vita gli anni che pesavano sulle spalle. Le notizie
dall’Europa giungevano scarse e dicevano che quella guerra non finiva più,
qualcuno era convinto che sarebbe durata tutto il secolo. “E io diventerò
vecchio.” Questo pensiero era ormai un chiodo fisso.
Ogni sera il nostro eroe usciva dal circolo
ufficiali, poco più di una catapecchia dove veniva servito pessimo cognac, e
accendeva l’ultima sigaretta. S’incamminava per strade polverose avvolte in un
silenzio che sembrava di morte, dalla spiaggia le voci degli indigeni
intonavano canti che incutevano timore e inducevano a presagire la malasorte. E
gli sembrava che la sua vita finisse in quel luogo sperduto.
Le lettere che riceveva da Lucette sconfiggevano il suo “cafard”, ma dopo
l’entusiasmo tutto ricominciava, come e peggio di prima.
Un giorno al nostro eroe passò per la mente
il pensiero temerario di fuggire, cambiar nome e arruolarsi nella Legione
Straniera che combatteva in Europa. Comunicò quest’idea a Lucette, ma la
risposta della sua madrina non giunse in tempo per dissuaderlo: per lui c’era
l’ordine di lasciare l’isola.
Si mossero, girarono per mezzo mondo, poi,
e finalmente, la nave salpò alla volta dell’Europa. Le ancore vennero
levate e i motori delle navi spinti sino
al massimo della potenza, si tornava a casa perchè la patria, come quattro anni
prima sulla Marna, era di nuovo in
pericolo e c’era bisogno del sacrificio di tutti.
Nella primavera del 1918 il nostro eroe
giunse in Europa, ma non riuscì a incontrare Lucette. Dalla cittadina normanna
in cui l’avevano accantonato scrisse promettendole che presto sarebbe andato a
trovarla. Invece lo spedirono al fronte e ci andò con l’entusiasmo del neofita.
Due giorni dopo un sergente che gli stava accanto ebbe la testa asportata di
netto da un proiettile di cannone. Il sergente decapitato per qualche secondo
continuò a muovere le gambe. Lui, dopo aver vomitato anche le budella, ebbe
voglia di fuggire, pensava che tutto quello che aveva immaginato nei lunghi anni
vissuti in capo al mondo era in realtà qualcosa di mostruoso. Accucciato dietro
un muro di un villaggio senza più nome sognò di camminare lungo spiagge deserte
e ascoltare i canti notturni degli indigeni. Ma nella vita è molto difficile
tornare indietro. Da quel buco fangoso scriveva a Lucette, la implorava come un
bambino di non dimenticarlo e di rispondere ogni giorno alle sue lettere.
Accanto a lui altri giovani morivano in quelle ore gravi in cui bisognava
salvare Parigi e resistere davanti ad Amiens e Chateau Thierry. Non tutte le
sue lettere giunsero a destinazione, erano momenti di grande paura e la posta
poteva aspettare. E venne l’offensiva, il nemico non ce l’avrebbe fatta a
vincere la guerra mondiale che stava per finire ed i poilus sapevano chi erano i vincitori e chi gli
sconfitti. In una bella giornata di settembre un enorme proiettile cadde
davanti al nostro ufficiale; di lui e dei quattro soldati che gli erano accanto non
rimase niente. Scomparvero dalla faccia della terra, e tutto questo avvenne in
un panorama desolato di terra fumante, di alberi e tronchi
bruciati e sotto un bel sole di settembre. Nei giorni della vittoria Lucette
chiese di lui, ma non ebbe alcuna risposta. Sei mesi dopo la fine della guerra
un generale, il padre del caduto le inviò una lettera in cui informava la
“madrina di guerra” che il suo figlioccio era eroicamente morto sul “campo
d’onore”. Lucette avrebbe voluto andare a trovare il padre del suo sfortunato amico, ma i fatti della vita impedirono un viaggio che a quell’epoca si
presentava assai faticoso. E Lucette aspettava il suo secondo bambino. Un
monumento venne edificato sul luogo in cui il nostro eroe era caduto, sulla
lapide c’erano cinquemila nomi di soldati di cui non s’era trovata nemmeno la
piastrina. Più tardi altri eserciti passarono accanto a quel monumento e altre
bombe caddero nelle sue vicinanze. Poi la vita riprese e l’Europa trovò
finalmente un’ambigua pace: si costruirono le autostrade, la gente divenne più
ricca, le gonne delle donne si accorciarono tanto da divenire inutili e gli
europei finalmente si conobbero un po’ di più.
Accanto al monumento passa un’autostrada e
oggi milioni di uomini, donne e bambini si fermano di giorno e di notte in un
grande parcheggio da cui si può osservare la lastra di pietra corrosa dalla
pioggia e dai venti. Fra i tanti c’è un nome.
Lucette non lo dimenticò, nella sua memoria
rimase il volto di un giovane che amava
la musica e in un pomeriggio del 1913 era entusiasta di partire per terre
lontane, gli Antipodi.
17/10/2001
Stefano
Viaggio