Un
bel giorno gli capitò di raccogliere una pietra.
L'eroe
della nostra storia passeggiava lungo un viottolo dominato da un'alta parete di
roccia e la pietra venne giù da una grossa sporgenza in alto, quasi un piccolo
balcone naturale. Questo signore con i capelli tutti bianchi, osservò la parete
sovrastante, s'accorse che mostrava qualche crepa e pensò che passare proprio
lì sotto era un rischio; allora, sempre con la testa all'insù, si spostò sul
margine del sentiero e superò il punto in cui era caduta la pietra. Non era la
prima volta che veniva a passeggiare attorno alla collina e non aveva mai
prestato troppa attenzione alle crepe. Da viottolo si godeva un'ottima vista
sul paesaggio delle alte montagne e ora, mentre procedeva per la sua strada,
osservava le cime che nell'inoltrata primavera conservavano la neve
dell'inverno. Il ghiacciaio della montagna più alta scendeva verso la stretta
valle e già oscura, quasi a volerla occupare per intero. Era un'illusione
ottica, il ghiacciaio si fermava molto più in alto e presto, con il caldo
dell'estate, si sarebbe ridotto ad una lingua grigiastra e incombente. Questa
sorta di Stephen Dedalus contemporaneo sapeva che tutte le valli, piccole e
grandi, un giorno lontano erano state occupate da ghiacciai che le avevano
tagliate, sbriciolate, modellate; nella loro avanzata quei ghiacciai si
gettavano in uno più vasto e imponente che a sua volta aveva tagliato e
modellato la grande valle su cui si affacciava il sentiero che gli piaceva percorrere
almeno una volta alla settimana.
Il
nostro non aveva mai prestato grande attenzione agli strati di roccia
sovrapposta sulla parete. Uno sull'altro, più chiari e più grigi, più spessi e
più sottili, gli ricordavano le pagine di un grosso libro antico e polveroso.
Proseguì
il suo cammino sino a giungere ad un pianoro circondato da vigneti; da quel
punto panoramico si poteva osservare l'intera valle, con le montagne lontane e
i villaggi appoggiati sui terrazzi naturali, anch'essi di origine glaciale. In
mezzo alla piana c'era la città. Poteva distinguere i campanili delle antiche
chiese e le ciminiere dell'acciaieria, un tempo molto più estesa, e i palazzi
moderni. Se guardava in basso, verso destra, vedeva la strada nazionale
trafficata di macchine e camion e, come una rotaia parallela, l'autostrada in
quel momento quasi deserta. Si, da quel pianoro che era il suo punto di
osservazione preferito, aveva sempre provato la sensazione di trovarsi su un
grande palcoscenico. Vedeva i castelli in cui si rifugiavano gli antichi signori
che avevano dominato la valle e si potevano indovinare le torri della città
romana, poi occupate dai nobilotti e trasformate in fortilizi per difendersi
dalle incursioni e farsi la guerra tra loro. Castelli, torri, villaggi, tutto
era fatto con la pietra. Sapeva che quasi all'inizio della città, vicino ad una
chiesetta ormai cancellata alla vista da un palazzo di vetro e cemento, certi archeologi che conosceva avevano trovato
testimonianze di pietra della gente che aveva popolato la valle prima che arrivassero
i romani a conquistarla. Laggiù seppellivano i morti. Gli antichi avevano alzato
pietre su cui qualcuno aveva scolpito volti,
armi e ornamenti per ricordare uomini e donne importanti. Un guerriero, una sacerdotessa,
un vecchio saggio. E questo signore, la cui figura si stagliava contro
l'orizzonte, immaginò quella gente che più di quattromila anni prima trasportava
le grandi pietre che il fiume portava a valle e dava loro una forma. Ogni tanto
uno di loro sollevava il capo e guardava le montagne che di notte erano
visitate dalla sfera bianca che attraversava il cielo tra i picchi come il
volto di una madre che osserva i suoi figli.
Gli
parve d'un tratto di essere circondato da un mondo di pietre e di rocce e
improvvisamente sentì tra i capelli il soffio del vento che scuoteva le foglie
e muoveva le nuvole bianche nel cielo. Tornò sui suoi passi. Rifletteva non
tanto sullo spettacolo che aveva appena visto e che gli era famigliare, ma su
quella pietra venuta giù all'improvviso dalla parete. Voleva ritrovarla. Giunto
sul punto in cui per poco non gli era caduta sulla testa si guardò attorno, con
disappunto si accorse che ne erano venute giù altre prima di quella, forse per
la pioggia dei giorni precedenti, oppure chissà quando. Non aveva mai fatto veramente
attenzione a quelle pietre. E invece la vide. Stava lì, ferma vicino a un
ciuffo d'erba che cresceva in mezzo al sentiero. Sembrava un po' piatta e
quando la raccolse, tra le mani sentì la sua pesantezza e la ruvidità dei
bordi. Fu a quel punto che gli venne sulle labbra la domanda : "da dove
vieni?". Certo, la risposta era semplice: dalla parete di roccia. La
pietra era caduta da almeno una decina di metri sopra la sua testa. Era stata
sino a mezz'ora prima parte di quella roccia simile alle pagine di un libro:
foglio su foglio, uno posato sopra l'altro. E la parete? Da dove veniva la
parete? Il rapporto del nostro eroe con
le pietre era strano. In verità, gli venne in mente, lui aveva un rapporto ben
preciso con le pietre. Le fotografava. E quando lo faceva non si chiedeva mai
il perché quella pietra o quella roccia fosse proprio in quel punto della
montagna o davanti al mare. Le forme delle pietre lo affascinavano. Era la luce
che dava alle rocce una forma. Sul mare, ad esempio, le rocce sembravano un'altra cosa. Gli ricordavano
volti misteriosi con profili immensi e sovrastanti. La stranezza dei contorni
gli suggeriva l'idea dei titani: esseri
strani giunti sulla terra da chissà dove e che s'erano fermati per sempre lì a
ricordare qualcosa agli uomini. Insomma il suo rapporto con le pietre era di
tipo assolutamente intellettuale, perché lui era un intellettuale. Aveva letto
tanti libri, ne aveva scritto qualcuno e lo affascinava la luce che
improvvisamente dava forma nuova a qualcosa.
Le
rocce e le pietre erano il suo soggetto preferito: non bisognava faticare per
spostarle, stavano lì ferme per farsi fotografare. Ma ora quella pietra
insignificante che non aveva alcun colore particolare, venuta giù pochi secondi
prima che passasse in quel punto preciso del sentiero, gli aveva fatto sorgere
una domanda precisa e che chiedeva una risposta altrettanto precisa. Voleva
sapere da dove veniva quella pietra, perché stava proprio lì, perché era
caduta, cosa conteneva. Insomma, pensò, per la prima volta gli si poneva
davanti il problema della scienza. E improvvisamente si accorse che lungo quel
sentiero c'era altro. Si fermò di colpo e s'avvicinò a uno dei muretti eretti
per costruire piccole terrazze in cui piantare magri vigneti. La montagna di
bassa quota era piena di questi muretti che formavano il paesaggio digradante
verso l'alto.
Era
un muretto antico, lo si intuiva dalla patina terrosa che ricopriva le pietre
che lo componevano. Si accorse o quanto meno fu la prima volta che se ne rese
conto, che le pietre erano tutte diverse fra loro, non tanto per la forma che
gli uomini avevano dato loro per ridurle in blocchetti, ma per il colore
originario e la materia di cui erano fatte. Quelle verdastre, ad esempio,
perché avevano un colore che gli era più simpatico delle altre? E cosa voleva
dire esser composta da tanti fogli tutti uguali, come la parete di roccia da
dove era venuta giù la pietra che per poco non l'aveva mandato all'ospedale? E
perché un'altra, sempre fatta a strati, poi s'incurvava come un pezzo di
metallo fuso, battuto e lavorato da un fabbro. E le linee bianche che solcavano
le pietre sembravano una trama misteriosa, quasi quanto la levigatezza della
roccia e formavano sottili ricami. Gli parve che alcune, rotonde, avessero una
forma perfetta. Certamente le avevano prese dal fiume che scorreva nel fondo
della valle centrale. Quel muretto poteva avere al massimo cent'anni. A quel
tempo non c'erano strade o camion per trasportare le pietre, solo muli e fatica
di braccia. Così l'uomo da secoli aveva imparato a domare la montagna a forza
di fatica, spostando le pietre da un posto all'altro, caricandole sui muli e
seguendo sentieri antichi e tracciati dalle generazioni che li aveva preceduti.
Sì, bisognava essere proprio stupidi a pensare che in mezzo alle montagne non
succedeva niente. Come aveva sentito dire da qualcuno. Altroché se succedeva,
succedeva eccome! Riprese il cammino dicendosi che aveva tutto il tempo per
scendere al fiume e andare a guardare le pietre rotonde che gli piacevano
tanto. Ricordava un punto in cui erano proprio tante e tutte sparse sulla riva.
Ma poi, quando già vedeva la sua macchina parcheggiata in un piazzale laggiù in
fondo, si accorse di qualcos'altro. Dove finivano i muretti c'era uno strato di
roccia bassa che gli ricordava l'altra parete, per la forma e gli strati
sovrapposti: era come se la parete stessa iniziasse da quella roccia che
affiorava dalla terra, ma la cosa più singolare era il fatto che lo strato di
roccia era coperto da un altro strato e questa volta fatto di terra e ciottoli.
Tutto sembrava ben compattato e spesso; alzò gli occhi e si rese conto che quel
miscuglio caotico non sembrava venuto giù a causa di una frana, ma stava lì da
un tempo difficile da misurare, anche perché sopra c'era altra pietra. Si,
un'atra parete di pietra compatta un po' simile e un po' diversa da quella
sotto la quale di solito passava e che aveva tirato giù la pietra che teneva in
mano. Fece un calcolo: una bassa parete di roccia sovrastata da uno strato di
terra e sassi cementati insieme, una
parete più in alto e quella più in basso. Notò che c'erano su quella più alta
delle grandi striature verdastre allungate in direzione della cima. Il colore
era simile a quello di alcune pietre incastrate nel muretto che aveva osservato
un attimo prima e altre, più chiare e più gialle oppure tendenti al rosso erano
lì, belle rotonde, in mezzo alla terra che un tempo era stata fango. Vide un
grosso blocco chiaro e puntinato di scuro. Sì, quella pietra la conosceva: era
granito. Simile agli scalini di casa sua. Che caos! Pietre, pietre,
pietre...C'era da farsi girare la testa a forza di pietre. Salì in macchina e
ripartì dicendosi che doveva tornare e fotografare un paesaggio che ora gli
sembrava diverso e nuovo.
Poi
una notte sognò.
Non
sapeva come, ma non dal sentiero che costeggiava la collina in cui era solito
andare a camminare, era giunto sul pianoro attorniato dai vigneti e da cui si
poteva osservare la valle. I vigneti non c'erano e il terreno era arido, sembrava sconvolto dal passaggio
di grandi ruspe, ma non vedeva attorno a se le tracce di cingoli e non sentiva
rumori di macchine al lavoro. Si guardava intorno e non vedeva la valle, ma al
suo posto una grande distesa grigiastra, a tratti più chiara o più scura. Non
c'erano le montagne che era abituato ad osservare e nemmeno la città, il fiume
con le sue anse, i campi, le vigne. Tutto sembrava assente: si, c'erano monti,
ma avevano profili diversi, era come se alcuni s'insinuassero tra quell'immensa
lingua grigiastra e immobile. Vedeva cime più alte di quelle che conosceva e
tra loro scendevano fiumi immobili, ora bianchi, ora grigi, ora più scuri. Quei
fiumi talora quasi sovrastavano le cime, come se le sommergessero. I rumori
c'erano, ma lontani, come i tuoni di un temporale che si scatenava sulle creste di montagne
invisibili, perché separate e coperte da altre montagne con profili sconosciuti
e da altro grigiore. E nonostante quel rumore di tuono il sole era abbagliante
e forte, la luce si rifletteva sul paesaggio desolato e accecava gli occhi
tanto che il sognatore dovette proteggerli con le mani sino a portarle per un
momento davanti al viso e quando tra le dita cercò di osservare attorno a se,
gli parve di scorgere qualcosa in lontananza che si muoveva sulla grande
distesa ai suoi piedi. Si, c'era qualcuno che camminava: erano piccoli puntini
che andavano verso sud; non sapeva distinguere bene quanti fossero, ma capì che
erano esseri umani. Più venivano avanti e meglio distingueva quel gruppo di
gente che gli sembrò vestita in modo assai diverso: erano coperti di pelli e
portavano bastoni. Non riusciva a mettere bene a fuoco i tratti dei loro volti,
non sapeva se erano uomini e donne o solo un gruppo di uomini, ma li vedeva
camminare spediti con i loro lunghi capelli mossi dal vento che improvvisamente
s'era levato. Allora cercò di chiamarli, come un naufrago cercò di richiamare
la loro attenzione su di se, cercò di fare un gesto di saluto e agitare le
braccia, ma non ci riuscì. Sentiva il corpo rigido, legato, tenuto contratto da
una forza che gli impediva qualunque movimento. E urlò. I viandanti nella
grande distesa grigia non sembrarono avvertire quel grido e neanche quelli che
vennero dopo. Procedevano in avanti, verso il sole, con i loro bastoni, le
pelli e i lunghi capelli al vento. Fece un ultimo sforzo per urlare più forte e
sentì che la gola si stava lacerando.
E
dal dolore il nostro sognatore si svegliò.
Dieci
giorni dopo quel sogno iniziò a piovere. Era ottobre e quella pioggia che
aumentava di ora in ora seguiva belle e calde giornate in cui la natura sembrava
risplendere nel bellissimo autunno. La pioggia si trasformò in un'alluvione che
sarà ricordata nella memoria della gente. Ci furono paesi devastati e fabbriche
allagate, morirono diciannove persone e intere vallate furono trasformate da
valanghe d'acqua nera che scendeva giù dai monti. Un villaggio sorto in un
punto della media montagna che chiamavano "rovine", in tempi recenti
si era ingrandito e vecchi ruderi erano stati ricostruiti, c'erano belle
villette di colore rosa pallido e azzurro cielo. A monte del villaggio la
roccia franò e formò un lago, la pioggia insistente fece tracimare l'acqua che
piombò giù molto violenta in quello che un tempo era stato il letto di un
antico torrente vicino al quale nessuno mai aveva costruito case. Tre villette
furono distrutte nel giro di poche ore e i loro proprietari a stento riuscirono
a mettersi in salvo. L'eroe della nostra storia andò a vistare
"rovine" il giorno dopo il disastro. Con qualche difficoltà raggiunse
il luogo in cui i danni erano stati più gravi, si fermò a guardare la strada e
le case che non c'erano più. L'acqua del torrente scorreva giù dalla montagna e
portava con se oggetti, carte e stracci di quello che era stato il vivere
quotidiano nelle villette distrutte. Il tempo, nel giro di poche ore, era
radicalmente mutato e un sole bellissimo splendeva su tutta la valle. Un
gruppetto di abitanti che avevano avuto pochi danni stava riunito vicino
all'antico forno del villaggio; la costruzione, vecchia almeno di un secolo, non era stata toccata dal nuovo
torrente che s'era formato nei due giorni precedenti. Il nostro pensò che un
motivo doveva pur esserci per chiamare "rovine" quel villaggio: si
avvicinò al gruppo di persone e sentì un giovanotto che commentava così lo
spettacolo di distruzione che avevano davanti agli occhi.
-Mio
nonno mi portava lassù quando ero bambino e diceva sempre che l'acqua si
nasconde dentro le rocce, d'inverno gela e lentamente le sgretola. Lassù è
tutta una frana, mio nonno sapeva quali erano i punti più pericolosi e diceva
che di qua, a ovest dei pini, non aveva mai visto scendere acqua dalla
montagna.-
Il
nostro personaggio si allontanò dal gruppetto che continuava a discutere e a
scuotere il capo. A un tratto vide ai suoi piedi una bambola di plastica sporca
di fango: si trovava abbastanza lontano dalle case distrutte e gli venne in
mente che la forza dell'acqua doveva essere stata di grande potenza. Dal
momento in cui aveva cominciato ad occuparsi delle pietre in maniera diversa
dal passato, non gli era mai venuto in mente quel particolare che ora assumeva
una grande importanza nelle sue
meditazioni e ricerche.
Attese
nel buio: don deng don deng don deng.
Accese
la lampada: ora il vecchio pendolo faceva iniziare un nuovo giorno. L'eroe
della storia allora cominciò a contare e al posto del tondo del pendolo gli
apparvero le immagini che aveva visto sui libri e che descrivevano il
progredire della vita sulla Terra sino a
quando era arrivato l'uomo. Stava in pigiama davanti al vecchio pendolo che di
notte teneva rigorosamente fermo per via del rumore che gli avrebbe impedito di
dormire: era un lascito antico della famiglia e non lo avrebbe mai ceduto a
nessun antiquario. Ma quella sera aveva voluto fare una prova, a mezzanotte
aveva lasciato che l'orologio iniziasse a contare i secondi e poi i minuti. Ora
quel don deng gli stava raccontando la storia del mondo. Non c'era bisogno di
stare ad osservare le lancette muoversi lentamente perché sapeva che per il
momento di tempo a disposizione ne aveva abbastanza: bisognava aspettare più di
mezz'ora, anzi più o meno tre quarti d'ora. Si avvicinò alla finestra e guardò
la notte stellata. Laggiù c'erano le montagne e la Luna illuminava il paesaggio
notturno come se fosse un giorno strano, un giorno senza luce solare. Il nostro
eroe immaginò allora la notte del tempo. Era assai difficile pensare a qualcosa di cui nessuno aveva una chiara idea,
eppure in quella notte qualcosa era accaduto, anzi molte cose erano avvenute, e
tra queste una in particolare: era nata la vita. Nel mare, naturalmente.
don
deng don deng don deng
Ci
mancava solo un bel cucù.
Nel
mare, va bene, ma poi? Il nostro, che da questo momento chiameremo
semplicemente il viaggiatore, in omaggio, s'intende, a un altro ben più noto e
famoso viaggiatore di cui abbiamo letto le gesta sin da ragazzi nei romanzi di
un tipo molto inglese, immaginò spiagge desolate di luoghi sconosciuti in cui
l'andirivieni delle maree lasciava piccole macchie verdi destinate più o meno
rapidamente a cuocersi sotto i raggi di un sole che non perdonava. Però...Erano
passati tre quarti d'ora dall'inizio della notte della conoscenza e ora le
macchie verdi di alghe resistevano, anzi si allargavano.
-E'
fatta!- esclamò il viaggiatore.
Poi
si spaventò per la sua voce in tutto quel silenzio che circondava la casa a
novecento metri dal livello del mare. Già, il mare. Ma che mare era quello? La
costa su cui aveva visto quei mucchietti di alghe sopravvivere ed allargarsi
sempre di più, non era più la stessa. Perbacco! Le onde s'infrangevano su un'alta
scogliera e più giù c'era una spiaggia su cui si affacciavano palme e piante a
lui ignote che quasi andavano a bagnarsi nell'acqua. E ancora, ma questa era la
cosa più straordinaria, lassù, verso occidente, si levava un pennacchio di
fumo...un vulcano! L'immaginazione del viaggiatore, ora che i primi tre quarti
d'ora erano passati, lasciò spazio ad un'idea. Insieme al pendolo in quella
stessa stanza c'era un vecchio pianoforte, entrambi retaggio di una casa
signorile in cui i suoi nonni avevano abitato per quasi l'intera vita.
Quest'idea è un po' difficile da raccontare, andrebbe piuttosto udita. Il
cronista di questa storia infatti fu svegliato nel corso della notte da una
strana musica di pianoforte, un motivo che non aveva mai udito e che durò sino
all'una. Quando l'ora scoccò la musica tacque. Purtroppo di essa non esiste uno
spartito e quindi non è possibile riprodurla e neanche l'autore era in grado di
ricordarla. Nei giorni seguenti quando qualche vicino gli chiese cosa fosse
avvenuto nel pieno della notte in casa sua, il viaggiatore rispose evasivo.
Forse la televisione era rimasta accesa, ma lui, disse, non aveva sentito
niente. Si scusò per il disturbo e della musica non si parlò più. Dire cosa
avesse immaginato il viaggiatore mentre suonava è cosa assai difficile e forse
la fantasia ci può aiutare a vedere come la faccia della terra cambiava sino a
diventare quella che vediamo sugli attuali mappamondi.
Dopo
la faccenda della pietra che per poco non gli era caduta sulla testa, il
viaggiatore aveva studiato e non sempre aveva capito, ma pian piano le idee su
come la pietra si trovasse proprio lungo la falesia che costeggiava andando a
passeggio, si erano fatte più chiare. Ma come comparare la chiarezza della
comprensione attraverso uno studio scientifico da autodidatta,
all'immaginazione che s'era scatenata in quella notte in cui il pendolo aveva
fatto don deng don deng don deng da mezzanotte all'una? Non sappiamo bene cosa
videro gli occhi del viaggiatore, ma una cosa possiamo dirla. Il viaggiatore
spesso, prima di addormentarsi, provava a immaginare come fossero veramente i
grandi rettili del passato che noi chiamiamo dinosauri. Lo aiutavano certo le
tante ricostruzioni e i fossili visti nei musei che aveva visitato, le riviste
sfogliate, i documentari trasmessi dalla televisione, qualche film, ma il
nostro viaggiatore ci metteva anche del suo. Provava a pensare al colore della pelle
dei dinosauri e si chiedeva se fosse poi vero che quelle bestie ruggissero o
emettessero lamenti. E se tutto si fosse invece svolto nel silenzio? Gli capitò
di leggere che esistevano luoghi in cui le orme dei dinosauri si erano
conservate. C'erano luoghi lontani e altri più vicini, lui scelse di andare a
visitare quelli che stavano in Europa e non perché gli mancassero i soldi per
andare sino in capo al mondo: di soldi il viaggiatore ne aveva abbastanza.
Scelse l'Europa perché gli sembrò così singolare che a pochi passi da
autostrade e supermercati, da computer e banche, da monumenti e storia secolare
dell'uomo, ci fossero i resti di spiagge e lagune, magari sollevate a mille
metri di quota in cui erano rimaste tracce di quel mondo così antico. Quando raggiunse
una pista gli dissero che sulla piana desolata e arsa dal sole per più di un
milione di anni erano passati i grandi sauropodi nelle loro migrazioni. E
c'erano anche orme di rettili carnivori
che li predavano.
-Dove
ci sono le bistecche ci stanno i leoni.- disse un anziano signore che faceva da
guida.
Mentre
camminava cercando di evitare le orme per non distruggerle (non erano in buono
stato a causa dell'incuria delle pubbliche autorità) il viaggiatore si guardava
intorno e immaginava palme e mangrovie e più lontano una spiaggia e poi il mare
e ancora terra emersa e ancora mare, lontanissimo mare.
Il
viaggiatore mi raccontò tutte queste cose quando diventammo amici. Lo incontrai
proprio lungo il sentiero della pietra piovuta dall'alto, anch'io ero
incuriosito dalle strane stratificazioni di roccia che mi parevano pagine di un
libro di pietra posate una sull'altra. Lui mi salutò e si fermò per spiegarmi
cos'erano, cosa ci aveva capito lui di tutto quell'immenso accavallarsi e
piegarsi, di quella grande lotta che era avvenuta e che ancora avveniva sotto i
nostri piedi e indicando una macchia verdastra che stava in alto, incastrata
fra gli strati di colore marrone tendente al rosso, mi disse:
-Quello
è l'oceano.-
Lo
guardai sorpreso e lui disse di si con il capo e poi iniziò a raccontarmi che
la pietra verde è il fondo di un oceano portato nelle viscere della terra dalla
lotta senza pietà dei continenti che si spingono l'uno contro l'altro. Una
lotta feroce in cui un elemento cerca di dominare sull'altro e a volte è
l'oceano che vince e sale sui continenti. Questo accade quando nascono le
montagne e ancora accadrà.
Mi
chiese se non avevo paura ad ascoltare questa storia e io risposi:
-Paura
no, ma certamente un grande stupore.-
-Pensi-disse
lui-Certe persone, quando racconto questa storia o non ci credono o non
vogliono sentire. Preferiscono i diluvi universali, le comete o i meteoriti,
oppure i continenti mitici abitati da extraterrestri supertecnologici, oggi
inabissati sul fondo del mare.-
E
sorrideva. Fra le dita teneva una piccola pietra verdastra raccolta lungo il
sentiero, me la porse dicendo.
-Basalto,
questo è un piccolo pezzetto di quell'oceano che è scomparso. Basalto: non
sente come questa parola sia dolce e da pronunciare...é una dolcezza che incute
timore. Il basalto erutta dai vulcani che stanno sotto il mare, al centro degli
oceani. E' il basalto quello che fa muovere tutto.-
Continuammo
a camminare per quel sentiero e il viaggiatore mi parlava delle sue ricerche e
di come aveva iniziato ad occuparsi delle rocce. Gli chiesi di mostrarmi le sue
fotografie, quelle che aveva fatto sulle spiagge che aveva visitato e sulle
montagne che ci circondavano. Diventammo amici e qualche sera andavo a casa sua
per ascoltarlo parlare di quel mondo lontano e fantastico che era la nostra terra
prima dell'avvento dell'uomo. Mi disse che avrebbe voluto andare in Africa.
-Vorrei
visitare i luoghi dove siamo scesi dagli alberi e abbiamo cominciato a
camminare nelle savane.-
E
aggiunse.
-Mi
piacerebbe andare anche in altri posti, ma non si può fare tutto. Sento di
diventare un po' vecchio e allora faccio lavorare la fantasia.-
Mi
aveva spiegato che prima della Pangea, il continente unico che racchiudeva
quelli attuali che poi s'erano staccati e divisi, la Terra aveva avuto altri supercontinenti
che s'erano divisi e frammentati e poi quelle terre s'avvicinavano di nuovo dando origine ad altre catene di
montagne molto più alte delle Alpi. E erano esistiti altri oceani: vasti oceani
di cui rimanevano le tracce nelle rocce e nelle pieghe della terra. Prima della
Pangea c'era stato un oceano a cui i geologi avevano dato il nome di Giapeto,
come il fratello di Prometeo, che aveva un mare nella sua parte meridionale.
Questo
mare si chiamava di Tornquist.
-Era
il geologo che aveva trovato nelle rocce le tracce di quel mare...In
Scandinavia, in Danimarca...Tornquist è un nome affascinate. Mi piacerebbe
vedere quel mare.-
Nei
giorni seguenti quella serata insieme non vidi il viaggiatore, poi qualcuno mi
disse che era partito. La casa era chiusa e tutto era sprangato, come per
un'assenza prolungata. Pensai che quell'uomo fosse assai strano e che forse le
rocce e la geologia per lui stessero diventando un ossessione. Mi chiesi cosa
cercasse in realtà il viaggiatore, ma non trovai risposte. In fondo lo
conoscevo da meno di due mesi e solo raramente aveva fatto accenno alla sua
vita, agli studi, il suo lavoro di insegnante e fotografo, ai due libri che
aveva scritto e pubblicato. Di quella storia della pietra caduta dall'alto e
che per poco non l'aveva colpito però mi aveva parlato in modo diffuso e mi
aveva detto che gli piaceva che io fossi interessato a quel suo personale
viaggio fra le terre su cui mettiamo i piedi quando ogni giorno usciamo dalla
nostra casa per compiere gli atti più banali, andare a fare la spesa ad esempio
in un supermercato che ha scale con i grandini di granito.
E
passarono alcuni mesi, del viaggiatore non si seppe più niente e il suo
giardino si riempì d'erbacce, poi venne la neve che nessuno tolse e poi una
primavera precoce che si portò via la neve e fece fiorire i fiori di una nuova
estate.
Fu
all'inizio di un giugno piovoso che ricevetti una breve lettera dal nostro
eroe.
"Sono
in giro per il mondo." scriveva"Ho capito che prima di morire volevo
vedere il mare di Tornquist e altre cose ancora."
Mi
pregava di dare uno sguardo al suo giardino e lasciava un indirizzo. Si
trattava di un villaggio africano, c'era anche un numero di telefono della
missione più vicina. Scrisse anche che si sarebbe fatto vivo quanto prima e mi
pregò di dare un'occhiata alla casa. Ma passarono i mesi e di lui non ebbi più
notizia.
Una
sera appresi dai telegiornali che un terremoto nell'Oceano Indiano aveva
provocato ripercussioni in alcune zone della terra. Sapevo cos'erano i
terremoti e perché avvenivano e debbo confessare che quella sete di conoscenza
che aveva animato il viaggiatore aveva contagiato anche me. L'indomani provai a
scrivere all'indirizzo che mi aveva lasciato; non avevo grandi speranze di
ricevere risposte, ma volli provare. Scrissi in inglese. Passarono giorni e
mesi e disperavo di ricevere notizie dal viaggiatore, ma poi giunse una lettera
dalla missione di cui mi aveva parlato. Era scritta in italiano perché chi
scriveva si chi chiamava Antonio Zanobrini, un missionario laico che da anni
viveva in Africa.
"Il
luogo in cui viviamo" scriveva Zanobrini "e in cui comparve
improvvisamente il nostro amico è molto arido e qui la gente fugge per la sete,
la fame e la guerra. Dopo quel terremoto di cui certo avrete avuto notizia però
ci è giunta voce che tra le vicine montagne s'é aperta una voragine da cui è
cominciata a fuoriuscire acqua. Forse si tratta di un fiume sotterraneo di cui
nessuno era conoscenza. Per noi tutti sarebbe come la manna dal cielo, ma
nessuno ha la forza e il coraggio di andare a cercare questa sorgente che forse
esiste solo nell'immaginazione della speranza. Il nostro amico invece è
partito, da solo e a piedi. Di lui per ora non sappiamo niente, ma tutti
pregano affinché torni con una buona notizia. Le scrivo in una serata
bellissima, la luna è alta nel cielo e sembra immensa, s'é levato un vento
leggero che forse porterà un po' di pioggia."
14
agosto 2014
Stefano
Viaggio