giovedì 29 gennaio 2015

Noi cambieremo il mondo. Prima parte. Terzo episodio

Clotilde sollevò il capo. Parve a Giovanni che i pensieri della donna fossero rivolti a qualcosa di molto lontano da quella stanza e dallo strano pomeriggio domenicale.
-Hai ragione. Non è proprio il modo di comportarsi...-mormorò.
Poi gli tese la mano in segno di commiato.
-Arrivederci, Giovanni.-disse.
-Tornerò a trovarla, lo prometto. Vorrei...-rispose Giovanni ricambiando il saluto, ma lei non ritenne necessarie altre parole.
-Torna quando vuoi.-disse Clotilde.
 (da un'intervista a Giovanni Riva realizzata nel 1996)
"Com'era la mia famiglia? E' difficile...Hanno scritto troppo e troppo poco per spiegare a quelli come te, che sono nati dopo la guerra, cos'era la borghesia italiana di quel tempo. Ho letto proprio ieri un'intervista ad Alberto Moravia. Un tuo collega gli ha chiesto come fosse l'Italia quando ero ragazzo. Moravia allora pubblicava i suoi primi romanzi, i migliori. Io Gli indifferenti non l'avevo letto, a quell'epoca…figurati. Moravia  risponde che la borghesia dell'Italia fascista lui l'ha descritta in "Le ambizioni sbagliate". E’ vero, se non lo hai letto te lo consiglio. I personaggi sono gente inadeguata. Vorrebbero, ma non possono...o non ci riescono. Perché non hanno una tradizione...Si, mancava alla nostra borghesia una vasta e solida tradizione. Pensa a quante volte abbiamo discusso, noi comunisti, di questo problema: che è poi quello della modernità del nostro capitalismo e forse…di noi stessi…I personaggi di Moravia non sanno risolvere i loro problemi e si odiano. Tutti contro tutti. E una storia di parvenu che non riusciranno mai a diventare classe dirigente e per questo hanno bisogno di qualcuno che pensi e faccia per loro. E c'è un personaggio femminile, Andreina, che non si dimentica facilmente. Molta della nostra borghesia a quel tempo era così. E poi c'erano i grandi borghesi...i padroni del vapore, come li chiamavano a quel tempo i socialisti e i comunisti. Mio padre e lo zio Giulio avevano conosciuto i primi proprietari dell'acciaieria. Gente che abitava a Milano, veniva qui raramente...In Italia non abbiamo fatto né la rivoluzione protestante né quella francese...Altra questione di cui abbiamo parlato, parlato...Ma è inutile che lo dica a te. E in questo romanzo di Moravia c'è un'atmosfera di cupa violenza, e che sfocia nel delitto e nel suicidio. Moravia aveva colto bene l'aria del tempo...Bisogna aver avuto diciotto anni ed esser andati a scuola in un liceo di provincia come quello di questa città, com'era allora s'intende, per capire personaggi come Armanti, oppure noi stessi, gli studenti di allora. I miei compagni di scuola non erano tutti stupidi, tutt'altro. Bragalin è stato comandante partigiano nel varesotto, ma allora...Andare al casino! Ecco la meta. C'era, non so se mi capisci, come una diga mentale...anche perchè le ragazze di allora, poverine...Figurati! Pensa a quelle di oggi. Alle mie nipoti, per esempio. Vanno, vengono. La generazione tua e di Tiziana ha iniziato, ma prima...E Agnese all'inizio con Tiziana non era poi mica tanto di manica larga. Allora, ai miei tempi, dicono che si facesse l'amore con più facilità in campagna prima di andare a nozze. Ho letto da qualche parte che le contadine erano più libere...Non so, può darsi. Ma noi, no. Regole severe e paura: innanzitutto dei genitori, e poi degli altri. Qui in città, nell'ambiente della mia famiglia, tutti guardavano  tutti. Mio zio Giulio aveva per amante una signora sposata ad un uomo di poco più vecchio di lei. Un grosso commerciante di grano. Lo sapevano tutti, anche  il marito che chiudeva un occhio. Devo averla vista due o tre volte  quella signora. Una bella donna. Sì. Per mia madre c'è stato un solo fidanzato, mio padre. Aveva fatto la guerra e io ero nato nell'anno di Caporetto. Quando sono venuto al mondo, mi raccontava mia madre, di mio padre non c'erano notizie. Nessuno sapeva se era vivo, morto, prigioniero...Poi abbiamo vinto la guerra. La Grande Guerra! Ci ho pensato...Sono vecchio e ormai non ho molte cose da fare, e allora penso al secolo in cui sono nato, al nostro secolo... E sono arrivato a questa conclusione: la vittoria nella Grande Guerra è stata per la nostra borghesia come quando un impiegatuccio dell'ultimo ufficio statale vince un miliardo al totocalcio...C'è da diventare matti! Era accaduto un po' questo, allora. E non solo ai borghesi. Non puoi immaginare cos'era il ricordo della vittoria, per tutti. E il fascismo si diceva fondatore di quella vittoria, erede della vittoria. Gli uomini che avevano combattuto e vinto erano fascisti, apparivano in camicia nera nelle adunate e al principio avevano comandato le squadre e i manipoli che ci avevano battuto...Veramente io non c'ero ancora...Nel Ventidue avevo cinque anni. E...chissà? Se avessi fatto la guerra e fossi tornato a casa da vincitore fra i vincitori, io, certamente un ufficiale...Non so... Eravamo ricchi e sino a quando sono rimasto in casa non mi è mancato niente. Hai mai fatto la fame? Io sì, e ti garantisco che non è bello saltare i pasti. Eravamo una delle famiglie più ricche della provincia. Ricchi come allora potevano essere i discendenti di chi possedeva terra qua intorno e case a Torino. Mio nonno andava spesso  a Parigi. Morì nel Venti. Non me lo ricordo. Un bisnonno materno aveva combattuto non so più in quale battaglia...Forse San Martino. La memoria oggi non mi aiuta. Mi devi scusare...Anche da quella parte c'era ricchezza. E nobiltà. Il nostro mondo famigliare, tutto sommato era un po' chiuso. Sì. Nonostante i viaggi. In confronto ai miei compagni di scuola, da questo lato ero un privilegiato. Per via di mia madre che s'interessava all'arte. A quel tempo conoscevo le più belle città d'Italia e quando in casa si parlava del nonno anch'io pensavo che sarei andato a Parigi. E l'ho fatto...[si mette a ridere] Parlavamo dell'America, a scuola, per via del cinema e di Lindberg...Un eroe...E delle attrici americane. Ma in America non ci sono mai andato. Quando avrei potuto non era possibile. Non ci volevano...Andavo spesso al cinema, anche a mia madre piacevano i film. Non avevo grandi amici, la nostra condizione sociale imponeva amicizie in un ambiente ristretto. Forse ci conoscevamo troppo per diventare amici...Avvocati, notai, professori, possidenti e qualche industriale, piccolo. Forse il giro non arrivava a trenta persone. Avrei frequentato l'Università per diventare avvocato e un giorno sarei stato anch'io avvocato. Giovanni Riva, l'avvocato. Il mio futuro era già scritto. Vuol sapere della politica? A casa mia si parlava poco di politica. Ne parlava zio Giulio che era un fascista vero. Era stato nella squadra Ettore Sabionetti, un eroe di guerra. C'era...c'era anche una lapide sul muro della Caserma Grande. Poi quando liberammo la città, i partigiani la tirarono giù a colpi di mitragliatore. Povero Ettore Sabbionetti...Mio zio Giulio era sceso a Roma, nel Ventidue. Nelle campagne avevano combattuto quasi un'altra guerra...E anche in città. Mario Verdi, il marito di Clotilde, l'avevano ammazzato nel Venticinque. Al tempo dell'ultimo sciopero in acciaieria. A Clotilde non l'ho mai detto, ma credo che mio zio Giulio non c'entrasse in quell'imboscata. I morti, è vero, c'erano stati dall'una e dall'altra parte, ma i fascisti erano i più forti.  Diceva mio padre, lui aveva fatto la guerra sul serio, che loro avevano le armi e i camion. E i soldi, è ovvio...Per questo vincevano. Queste cose me le sono fatte raccontare dopo, quando ci siamo rivisti...Io non ricordo niente di quel periodo, ero un bambino, e in casa si parlava poco di politica. A mio padre non piaceva ricordare le avventure di suo fratello. Lui non era fascista, non lo è mai stato. Era tornato dalla guerra stanco e certamente deluso. Un volontario del novecentoquindici...Un interventista democratico che poi s’era adattato al fascismo, come tanti...Gli sentì dire che non avrebbe più voluto vedere morti ammazzati, ne aveva visti anche troppi sul Grappa. Aveva combattuto alla Bainsizza, immagina...Aveva la tessera del fascio? Tutti avevano la tessera. Ero stato balilla e poi avanguardista, all'Università mi sarei iscritto al Guf. Pensavo anch'io che l'Italia era una grande nazione e Mussolini un vero capo. Il destino stava dalla nostra parte...Di questo ne eravamo certi. E convinti che dopo la Grande Guerra i nostri alleati ci avevano voltato le spalle. Ecco, tutto qui. Niente di più normale. Ero assolutamente uguale a tutti gli altri."                           

Quella sera Clotilde posò il suo lavoro sul tavolo ovale che poche ore prima era stato sgomberato da Giovanni per far posto alle tazzine del tè e si lasciò andare contro lo schienale della vecchia poltrona. Chiuse gli occhi.
Le era accaduto altre volte di ascoltare la  voce di Mario.
La baciava sul collo, dietro la nuca.

Facciamo un figlio.

Ma i bambini non venivano e per questo Clotilde piangeva.

Ci vogliamo bene lo stesso, queste storie lasciale ai preti e a chi gli va dietro.

S'era appoggiata al petto di lui che la cullava fra le braccia forti e pian piano aveva smesso di piangere.
La guerra l'aveva portato via. Mario era andato lontano, su per altre e sconosciute montagne.

(dattiloscritto ritrovato fra le carte di Giovanni Riva dopo la morte, non reca alcuna data o firma)
[Per liberare Trento e Trieste.
Per sconfiggere una volta per tutte il secolare nemico.
Per l'Italia, bella, forte e potente.
Per far piazza pulita di vecchi e nuovi imbroglioni
Per, se necessario, uccidere chi vuol tener gli italiani fuori dalla storia.
Per farla finita con Giovanni Giolitti e il suo amico Filippo Turati.
Per chiudere quel covo di ladri che è il Parlamento di Roma.
Per morire sul campo d'onore.
Per non morire di noia nelle case dei padri che non si decidono a crepare di vecchiaia.
Per fare qualcosa nella vita.
Per la giovinezza, tanto bella che per viverla bisogna morire]

Anche le strade della piccola città a quel tempo erano percorse da gruppi di studenti e borghesi con le bandiere tricolori. Un giorno avevano provato a salire per i vicoli del Borgo Vecchio, ma le donne li avevano attesi ai crocicchi e minacciose s'erano fatte avanti.
-Andate voi a fare la guerra! Non vogliamo veder morire i nostri mariti e fratelli!-
Così gridavano la madri e le ragazze socialiste. Clotilde era in mezzo a loro. Che emozione quel giorno! 
-Con questa guerra vogliono fotterci. Ci hanno già fregato. Gli operai francesi e tedeschi è un anno che si sparano addosso.-
Così aveva detto ad aprile il segretario della Camera del Lavoro, Attilio Mantovani, poi caduto davanti a Gorizia. E Mario Verdi gli aveva risposto:
-I nostri capi hanno scelto di aspettare e quasi tradiscono... Facciamo la Comune, come a Parigi! Nel Settanta. Il popolo non vuole questa guerra!.-
Poi anche lui era partito per il fronte.
Ogni volta che guardava le montagne bianche di neve, Clotilde pensava ai ragazzi in trincea. L'alpino Mario Verdi in montagna c'era quasi nato e da bambino andava in alto insieme a suo padre, a pascolare le bestie. E tre anni dopo, quando tutto era finito, i nomi dei morti, una lunga fila, li avevano incisi sulla pietra di granito, sotto la colonna di marmo del monumento ai caduti.
"Imperitura gloria ai figli dell'Alpe e della Pianura"
Mario era tra quelli che invece erano ritornati dalla guerra.
-Non voglio parlare di quello che ho visto.-aveva detto a sua moglie-Ma ora è diverso. D'ora in poi non potranno più fare le guerre. I lavoratori si uniranno e spareranno addosso ai capitalisti che hanno voluto questa guerra. Ora sappiamo come si usa un fucile, e c'è un fatto nuovo. La Russia e una nuova Internazionale dei lavoratori.-
E Mario sul palco si toglieva  il cappello per salutare l'epoca nuova e tutti gridavano "Viva Lenin!"…

Il compagno era passato sei mesi prima e s'era fermato solo per poche ore. Doveva proseguire  e portare la voce del partito in altri luoghi, forse a Torino oppure a Milano... Nessuno sapeva dove se ne andava il compagno, le regole non ammettevano eccezioni e non si discutevano.
-Ci sarà un'altra guerra. Il capitalismo inglese e francese vuole scatenare un'altra guerra, questa volta contro di noi, contro la Russia dei Soviet. Ora che il fascismo ha vinto in Germania, siamo certi che ci sarà un' altra guerra. Dobbiamo essere pronti e lavorare per l'unità dei lavoratori. Smascherare il tradimento dei socialdemocratici e ogni deviazione opportunista dalla linea dell'Internazionale, questo è uno dei compiti fondamentali nella fase attuale dello scontro di classe. Ecco, questo è il partito che spiega quali sono i nostri compiti.-
E il compagno aveva consegnato a Clotilde piccoli fogli quasi trasparenti. Le parole, stampate con caratteri neri e precisi, erano così minuscole che ci voleva la lente d'ingrandimento per leggerle. Il titolo di quel giornale in miniatura sarebbe piaciuto a Mario, si chiamava "Lo Stato Operaio".
Il compagno era stato arrestato quando il treno era in vista della periferia di Milano. Quei foglietti Clotilde li teneva dentro una vecchia botte.
"Attenti alle spie" c'era scritto con l'inchiostro simpatico fra le righe di una lettera da poco arrivata dalla Francia.
"Lo Stato Operaio" l'avevano nascosto al sicuro, nell'osteria di Tunin. Nessuno l'aveva distribuito e si attendeva l'occasione propizia.  Bisognava fare attenzione: la polizia s'era fatta più esperta. Come succede sempre alla vigilia di una guerra. Perché ora tutti dicevano che la guerra ci sarebbe stata in Africa. Il compagno aveva ragione: prima in Africa e dopo contro la Russia. Ma che potevano fare loro, per fermare la guerra?
-Tutti vogliono la guerra contro il Negus. I giovani. Dovresti sentire i giovani. Sono come pazzi!-aveva detto Tunin.
E questo ragazzo? Che voleva da lei? Chi l'aveva mandato a cercarla?
Clotilde udì ancora la voce di Mario.

Tutto può avvenire all'improvviso. Per anni, secoli, non accade niente. Poi la storia fa un salto. C'è scritto qui, su questo libro. Devi leggerlo anche tu. Una vera compagna i libri li deve leggere.

Una vera compagna? Io? Chi me l'avrebbe detto che un giorno sarei stata la Vedova Rossa? Io.

Clotilde aprì gli occhi. La stufa s'era spenta e il freddo mordeva le ginocchia.

-Buono. Molto buono.-
Giovanni posò il cucchiaino e si asciugò le labbra con il tovagliolo ricamato.
-A scuola, com'è andata oggi?-
Clotilde infilò l'ago nella stoffa.
-Tutto normale, per ora non interrogano.-
-Ho bisogno di un favore.-
Giovanni rimase in attesa, il cuore prese a  battere più veloce.
-Ho rivoltato il cappotto di uno che sta dalle parti del Convento. Io ci perdo un'ora fra andare e venire... se tu potessi, con la bici?-
-Si. Ma se mi chiedono...-
-Non devi dire niente: consegni il pacco alla portiera e te ne vai.-
Giovanni eseguì la commissione. Ma passò una settimana prima di farsi vivo con Clotilde.
Lo aspettava.
Le pareva che un angelo buono avesse deciso di comparire in casa sua ogni tre o quattro giorni. E Giovanni imparò a mentire.
Inventava scuse plausibili.
La biblioteca. Una rara collezione di cristalli delle Alpi. Un semisconosciuto compagno di scuola ammalato.
Lasciava Villa Riva e raggiungeva il Borgo Vecchio. Ora che le giornate erano più calde, prendeva la bicicletta e raccontava poi a sua madre di com'era bella la campagna quando s'avvicina la primavera. E anche quella era una buona scusa. Alle lunghe pedalate fuori città, Giovanni sottraeva ore e minuti per far visita a Clotilde. Ormai conosceva gli abitanti del Borgo, passava accanto all'osteria di Tunin e lanciava un'occhiata all'interno della sala angusta e semibuia. Affrettava il passo, ma aveva imparato che fra i vicoli non c'era sempre freddo e nebbia. Giovanni guardava le ragazzette: vestivano abiti più leggeri e sostavano davanti agli usci di casa. Una o due si voltavano a osservare quel giovanotto mai visto nel quartiere. Pochi erano stati gli incontri di Giovanni sulle scale della casa di Clotilde, per lo più gente anziana e bambini che giocavano nel sottoscala. I loro urli arrivavano in alto, sino alle finestre di Clotilde.

-Perchè vieni qui? Cosa ti aspetti?-
Sedevano come al solito l'uno di fronte all'altra. Lei cuciva, teneva la stoffa sulle ginocchia.
Quando Giovanni pensava alle fughe nel Borgo Vecchio, alle visite in casa della Vedova Rossa, alle menzogne che inventava con sua madre, provava il rimorso del tradimento gratuito. A volte, mentre varcava il cancello di Villa Riva, si voltava indietro e se c'era il sole, si sorprendeva a pensare quanto fosse bella la sua casa ora che nel giardino l'erba diventava verde e il grande castagno fioriva. Ma poi andava. Era spinto da una forza che non riusciva a dominare; gli sembrava che dovesse varcare a tutti i costi un altro cancello per entrare in un mondo diverso, libero da certi silenzi, dai ricevimenti che terminavano con le sonate al pianoforte ascoltate nella noia e il mento sorretto dal palmo della mano.
Giovanni decise che era meglio parlare e accettare la sfida.
-Non lo so. Non so ancora bene. A volte penso che sia mio dovere venire qui.-
Clotilde sollevò il capo, smise di colpo di cucire e lo guardò dritto negli occhi.
-Tuo dovere?-
-Si. Lei, signora Clotilde, è molto sola e forse è mio dovere farle compagnia. E' un po' come ai vecchi tempi, quando i cavalieri erranti sceglievano una dama e a lei dedicavano le imprese della vita.-

Perché ho detto questo? Che mi salta in mente d'inventarmi una simile balla?

Giovanni confuso, non colse negli occhi di Clotilde la sorpresa e, certo, la meraviglia.
-Chi sarei io? Cos'è questa storia...dei cavalieri erranti?-
A Clotilde però veniva da ridere.
Ma dovette trattenersi. Non voleva far sprofondare del tutto Giovanni nel ridicolo. E pensava che avrebbe dovuto avvisarlo già dalle prime visite: quel "signora Clotilde" era strano per lei, e così inusuale al Borgo Vecchio. Per chi la conosceva e con lei aveva confidenza, era la Clotilde di Mario. E se in casa capitava nel discorso, per tutti era la Vedova Rossa. Ma i bambini non dovevano né sentire né ripetere il soprannome.

Maledetto. Come mi giustifico?

-Allora, chi erano i cavalieri erranti? Raccontalo a me che sono ignorante.-
Giovanni colse ora il tono popolano, vagamente canzonatorio, che lo intimidì.
-Sì, insomma...Una volta c'erano i cavalieri che giuravano a Dio di difendere i poveri e le donne, combattevano per la giustizia e se ne andavano soli per il mondo. Sceglievano una dama, a  lei dedicavano le imprese compiute in nome del bene supremo...Spesso venivano uccisi e per questo entravano nella leggenda. Combattevano contro  saraceni e  briganti, liberavano i deboli dai signori prepotenti e venivano sepolti all'ombra di grandi alberi secolari, in luoghi che la gente di allora considerava sacri...Li chiamavano i cavalieri senza macchia e senza paura. Deve credermi...Sono esistiti sul serio questi uomini. E' accaduto prima che costruissero la torre sul fiume e il Borgo Vecchio.-
Clotilde sorrise. No. Non c'era bisogno che provasse a convincerla, sapeva bene che Giovanni non le avrebbe mai raccontato una frottola tanto per darsi delle arie, per fare il superiore con lei. Ne era sicura. E anche Clotilde sapeva qualcosa dei cavalieri erranti. Suo nonno leggeva e rileggeva ogni sera un vecchio libro in cui si raccontavano le storie di Lancillotto, re Artù, Ginevra, Ettore Fieramosca e Pia de Tolomei...E un pensiero le passò per la mente.

Sa tante cose però. Sa parlare. E il partito, se venisse a conoscenza di questa storia che mi capita...Se i compagni di Parigi sapessero che il figlio dei Riva viene a trovarmi e mi tiene compagnia...

-E tu, quali imprese vorresti compiere nella vita?-

Imprese?

-Non lo so ancora... Per ora è già un impresa venirla a trovare senza che a casa se ne accorgano.-
-E se scoprissero che vieni a trovare la Vedova Rossa, i tuoi cosa direbbero?-
Giovanni scosse il capo.
-Non potrei più.-
-Ma una fidanzata ce l'hai?-
Con sua cugina Eleonora s'erano strofinati al buio più di una volta l'estate precedente. Eleonora viveva a Venezia. Giovanni pensò alle signorine che sperava di vedere affacciate alla finestra del casino quando ci passava davanti in bicicletta.

Le puttane.

Quella parola lo faceva sentire uomo.
Non era mai andato "a puttane", ma pensava che un giorno sarebbe andato anche lui a trovarle. Con Marco Veneziani e Andrea Gianquinto.
-No, per ora no. Pensano solo al matrimonio le ragazze che conosco. Non m'interessano.-
S'era gettata nel fiume Maddalena che aspettava un bambino. Clotilde se la vide davanti agli occhi la servetta del "vicolo dei Vallaise". L'aveva messa incinta il figlio della sua padrona. Era risaputo da tutti al Borgo Vecchio che il giovanotto De Ferreiro s'era presa per amante la ragazzina di sedici anni. Maddalena. E ora questo Giovanni...

Appartiene anche lui alla classe dei ricchi e dei padroni. E nelle loro  case le cameriere, le figlie del popolo, vengono messe incinta.  E tanti saluti. Povere figlie!

-E cosa vorresti da una donna?-
La voce di Clotilde s'era fatta tagliente. Giovanni ebbe paura di lei e pensò alla ragazza della fotografia, nuda e con le gambe aperte. Una puttana.
-Allora? Cosa c'è? Perché non mi rispondi, cosa vorresti da una donna?-
Di colpo Clotilde mise da parte il suo lavoro e compì un gesto che lasciò Giovanni privo di ogni difesa.
Clotilde aveva teso le braccia, le palme delle mani aperte puntavano contro il petto di Giovanni.
-Avanti, non aver paura.-disse -Dammi le mani.-
Giovanni riconobbe lo stesso tono di quando l'aveva invitato a sparecchiare il tavolo senza tanti complimenti. Se uno strano pensiero passò per la sua mente, lo ricacciò indietro. Se un fremito inatteso e mai conosciuto, così diverso da quello provato quando s'era accostato a sua cugina Eleonora, gli attraversò il corpo, fece in tempo a reprimerlo e dimenticare. Pose le sue mani in quelle della donna. Mai avrebbe dimenticato quel fisico contatto e il momento di attesa che seguì.
-Stammi a sentire. Arriverà il momento in cui incontrerai una donna. Non è una sottana da sollevare. No. Giovanni, stare insieme a una donna e l'amore non li puoi dividere, e le ragazze non sono stupide, le femmine se ne accorgono, e se fingono, è perché o ti prendono in giro o ti disprezzano.-
Rimasero a guardarsi, occhi dentro agli occhi. Clotilde abbandonò le mani di Giovanni.

Le parole giuste...

E qualcos'altro sconvolgeva Clotilde. Mario l'abbracciava, la baciava sul seno, l'accarezzava.

Attenta. Stai attenta.

-Ti ho fatto la predica.-
La voce tremava.
E Giovanni comprese il motivo delle sue visite in quella casa.

E' come una sorella lontana, ripudiata e sconosciuta. E che mi piace stare a sentire.


-Il fascismo dimostrerà al mondo che gli italiani ce l'hanno il sangue nelle vene!-
Era una frase che Giulio Riva ripeteva spesso, ma squillava alta nei caffè, nei saloni dei barbieri, a scuola, nelle adunate.
E ancora.
-Vendicheremo Adua.-
La voce di Giulio riempì il salotto di casa Riva. La signora Elena guardò il cognato e in cuor suo approvò.

Si, è vero. Dare terra al nostro popolo del meridione. C'è voluto Mussolini.

Ascoltava distratto i discorsi sull'Africa...Adua.
Suo zio parlava e suo padre rispondeva contrastando l'entusiasmo del fratello.
Alfonso era contrario alla guerra.
Un giorno Giovanni l'aveva sentito dire certe parole che gli erano suonate strane per un uomo così trattenuto nei giudizi.
-Pensavamo di cambiare tutto con la guerra e invece...una bella fregatura, la vita.-
E Giovanni si chiese se anche lui un giorno avrebbe pensato che la sua vita era stata una  "bella fregatura".
-Presto toccherà anche a te.-disse Giulio, rivolto a Giovanni.
-Non chiameranno mica quelli della sua età?-intervenne Elena, quasi  risentita.-Non è possibile, Giulio!-
Giovanni guardò sua madre. Da quando si parlava della guerra Elena era preoccupata, Giovanni se n'era accorto.

Sono un disgraziato. Se loro sapessero.

Udì Giulio.
-Questa occasione certo la mancherà.-
Ci aveva pensato un momento prima di rispondere alla cognata.
-Un amico che è intimo dei Ciano mi ha detto che siamo alla vigilia. Ma la cosa, vedrete, non finisce qui. Ce ne saranno, ce ne saranno di occasioni per Giovanni. E quando il Capo dirà che è giunta l'ora quasi, quasi me ne vado in Africa. In questa città mi annoio.-
I capelli di Giulio s'erano fatti più grigi negli ultimi mesi.

Non fa niente. Certo che si annoia!

Elena scambiò con suo marito uno sguardo complice.
-Non bisogna dar troppo peso a quello che dice. E' fatto così.- commentava Alfonso, quando Giulio annunciava importanti decisioni che non avevano mai alcun seguito.
-C'è ancora tè. Prendi un biscotto, caro.-disse Elena rivolgendosi a suo figlio.
Giovanni prese un biscotto al cioccolato e lo portò alle labbra, sollevò gli occhi sul  quadro appeso sulla testa di zio Giulio che ora porgeva l'accendisigari ad Elena. L'aveva dipinto un francese, amico del nonno, ed era una banale scena di caccia, con il cervo circondato e azzannato dai cani. Eppure qualcosa di sorprendente quel pittore l'aveva fatto. Giovanni non se n'era mai accorto: il mediocre pittore era riuscito a dipingere gli occhi della bestia come se il cervo  chiedesse aiuto e sperasse sul serio di sfuggire alla morte atroce.

Ma forse esagero. Fra poco andremo a cena e la presenza di zio Giulio obbligherà mio padre a parlare più del solito. Come a teatro. Chi scrive il pezzo di copione che mi riguarda? E lei, lei, che mi ha parlato in quel modo! Zio Giulio mi vede in divisa e mamma piangerà. Compirò il mio dovere. E' una tradizione di famiglia. E lui, mio padre, mi stringerà al petto emozionato, scuoterà la testa, ma alla fin fine dirà che è giusto, perché la patria chiama. E a me, che me ne frega dell'Africa?


Nessun commento:

Posta un commento