Elena guardava cadere la
pioggerella sottile. Fra poco la macchina del partito sarebbe passata a
prendere Giovanni e l'avrebbe portato alla stazione. Elena a Roma c'era stata
due volte, nel ventotto e nel trentuno.
Questo figlio. Chi era? Non
sapeva darsi una risposta, come forse non dava una risposta a quell'altra
domanda che le opprimeva il cuore.
Gli ho mai voluto bene, Alfonso era…
Elena s'interrogava su questo
marito che aveva scritto una lettera al figlio in punto di morte e l'aveva
pregata di non leggerla. Giovanni non le aveva parlato del contenuto di
quell'ultimo messaggio e nemmeno del comizio che aveva tenuto a solo due giorni
dalla morte del padre. Armandina l'aveva saputo. Era quello uno del compiti di Armandina,
raccogliere le notizie e raccontarle alla sua padrona.
Avrebbe potuto farne a meno.
Giovanni entrò nella stanza.
-Anche ieri sera hai fatto tardi,
Armandina ti aveva lasciato in caldo...-
-Ho mangiato qualcosa con i
compagni.-disse Giovanni.
Elena avrebbe voluto chiedergli
di Agnese, se l'aveva incontrata. Per un momento, in quei giorni, aveva sperato
che se Giovanni avesse rivisto Agnese forse non sarebbe più tornato a Roma.
-Come vivi a Roma?-gli chiese
Elena.
-Bene, non preoccuparti, mamma.-
La pioggia ora aumentava e bagnava
i vetri dell'ampia finestra che dava sul giardino. Giovanni avvertì il motore
di una macchina.
-Vivi solo?-
Giovanni fu sul punto di rivelare
ad Elena che non sarebbe tornato subito a Roma, ma esitò a parlare di Sibilla.
Elena interpretò il silenzio di
Giovanni.
-Allora è destino che non debba
avere nipoti.-disse.
Una sorda rabbia saliva in lei.
Spreca la vita, avrebbe potuto finire gli studi e farsi una famiglia,
vivere come un uomo normale, bene. E invece s'accontenta dello stipendiuccio da
funzionario, con la fodera della giacca strappata. Poveretta quella che se
lo prende.
Giovanni interruppe i pensieri
rabbiosi di Elena.
-Non devi preoccuparti. Sono io
invece...Resti qui, con solo Armandina accanto.-
Elena si spostò dalla finestra,
fece qualche passo.
Immaginò Agnese seduta dietro la
scrivania del suo ufficio in fabbrica. Dava lavoro a trenta operai Agnese. La
signora Agnese Vairos.
E' stata fortunata.
Elena sedette sulla poltrona e
sospirò. Guardò suo figlio, il rumore di automobile s'allontanava nella mattina
di pioggia.
-Ti ricordi adesso che hai una
madre? Solo adesso che è vecchia e dà pensiero?-
Giovanni non disse niente. Pensò
che sua madre metteva a nudo un risentimento che covava da sempre in lei, l'aveva
celato per mettere pace fra padre e figlio, ma ora veniva a galla dall'oceano
di tristezza della sua vita.
La voce di Elena divenne cattiva.
-Te l'ha detto quella che ti ha
messo in testa le idee che ci hanno rovinato la vita?-
Elena serbava per se un segreto
che non aveva mai rivelato a nessuno. Quando aveva conosciuto tutta la storia
di Giovanni e Clotilde, aveva provato un forte dolore al ventre che quasi
l'aveva fatta svenire.
La macchina del partito si fermò
davanti al cancelletto, il compagno riparandosi con un vecchio ombrello scese e
si fermò nella strada fangosa, incerto se entrare o attendere sulla strada.
Giovanni fece un passo verso sua madre. Avrebbe voluto essere già in macchina.
Oppure alla stazione. Oppure già a Roma, nel suo ufficio ad ascoltare qualcuno
che gli ricordava di quell'articolo che doveva scrivere in fretta per "Vie
Nuove".
Elena si sollevò di poco dalla
poltrona per guardare fuori, poi si adagiò di nuovo. Era stanca.
-Non dai un bacio a tua
madre?-disse.
No, non così, mamma..
E allora si ricordò che da quando
l'aveva rivista, al tempo in cui sulla sua testa pendeva una taglia di
cinquemila lire, non aveva mai cercato il conforto della mano che da bambino si
posava sulla sua fronte. Non voleva andare via in quel modo. Era certo che se
avesse accettato un commiato pieno di astio e cose non dette, forse sarebbe
stata la più grave sconfitta della sua vita. Ma non trovò le parole. Il
compagno attendeva sotto la pioggia.
Giovanni trovò però il coraggio
di avvicinarsi a sua madre, le pose una mano sulla spalla.
-Scusami, mamma.-disse. Elena
allora appoggiò la sua mano su quella del figlio.
-Vai.-disse-Non far aspettare
quel signore sotto la pioggia. Vai.-
Giovanni si chinò a baciarla sulla fronte e s'accorse delle lacrime.
La fotografia di Matteo l'avevano
fatta ingrandire a Vercelli, lui dal quadro sorrideva e guardava la famiglia
riunita. L'ospite quella sera era il compagno dirigente venuto a trovare
Sibilla. Luigi aveva chiesto a sua figlia di invitare a cena il compagno che
l'aveva protetta in quella giornata piena di spaventi. Giuseppina aveva avuto
qualcosa da dire con il segretario della Federazione di Vercelli a proposito
della manifestazione di Roma.
-Era proprio il caso di portare
al corteo gente che a Roma non c'è mai stata?-
Il segretario s'era messo a
ridere e a Giuseppina quell'aria di noncuranza aveva dato fastidio. Non l'aveva
detto, ma l'aveva pensato.
Io ci ho già rimesso un figlio.
Giovanni guardò l'orologio.
-E' ora di andare.-
-La stazione è a due passi.-disse
Luigi, provò a versare ancora del vino, ma Giovanni lo fermò.
-Spero di trovare posto a
sedere.-
Sibilla guardò i genitori.
-Ti accompagno alla stazione.-
-Ma no, fuori è buio.-disse
Giovanni.
-Fa bene prendere un po' d'aria a
quest'ora.-insistette Sibilla, era già in piedi. Sua madre non provò nemmeno a
impedirle di uscire.
-Prendi la bici.-disse Luigi,
s'era alzato da tavola anche lui.
Giovanni salutò i genitori e i
fratelli di Sibilla promettendo che sarebbe certamente tornato a trovarli.
C'era un vento leggero, il
piccolo borgo era deserto. Lei pedalava lentamente, lui sorreggeva la sua
valigia e fumava ancora una sigaretta. Per un po' non trovarono le parole per
dirsi qualcosa di diverso, ora che erano lontani dai compagni.
Loro chiedevano sempre la stessa
cosa.
-Ma quando cacciamo De Gasperi?-
Uno aveva detto:
-Le armi. Quelle che abbiamo
usato contro i fascisti, non ce le hanno mica tolte tutte. Le teniamo nascoste,
e bene. Compagno Riva, ora che torni a Roma vai da Togliatti e digli: stai
tranquillo.-
Giovanni s'era messo a ridere,
tanto gli era parso ingenuo e generoso quel compagno.
-La Costituzione
l'abbiamo fatta anche noi. E' cosa nostra e loro vorrebbero considerarla carta
straccia. Attenzione: saranno loro ad uscire dalla legalità, a fare la prima
mossa. E allora ti verrò a trovare, te e i tuoi moschetti novantuno. Per noi uscire dal sentiero della legalità oggi, vorrebbe dire cadere nella trappola.
E' questo che vogliono. Ci hanno provato e il partito non c'è cascato.-
E Sibilla, che era presente
all'incontro con i compagni, s'era sentita correre un gran brivido per le
spalle e la schiena. Lei, così piccola e giovane, aveva portato in quel
borghetto di campagna Giovanni. Il figlio di un avvocato che aveva rinunciato
alla vita comoda per diventare comunista e fare la guerra di Spagna, la lotta
contro i nazisti e le brigate nere e ora faceva il dirigente. Uno che alla
rivoluzione aveva dato la vita, come Matteo.
Giovanni sollevò il capo, erano
passati davanti al municipio, vicino al lampione di Matteo. Era là che i
fascisti l'avevano appeso con un gancio da macellaio infilato nel collo.
-Mi ha fatto un gran bene stare
insieme a voi.-disse.
-Ti scriverò.-rispose Sibilla.
Fecero ancora qualche passo. La
stazione attendeva, erano giunti al momento della separazione.
-Voglio raccontarti della
cooperativa.-disse ancora Sibilla.
Giovanni attese che pedalasse
ancora per qualche metro.
-Non mi dirai nient'altro?-
Sibilla si volse a guardarlo,
posò i piedi a terra.
-Mi dispiace.-disse-Tu forse
volevi stare un po' tranquillo dopo quello che...E t'ho portato di quà e di là,
come una pazza. Ora non c'è più tempo...-
Giovanni pensò che doveva
abbracciarla e baciarla, dirle che sarebbe tornato presto perché s'era
innamorato di lei.
Posò la valigia.
-Ti ringrazio invece, ho passato
due giorni belli con voi, con i compagni di qui. Mi sei stata di grande aiuto
Sibilla. Te lo dico veramente...-
Lei lo guardò diritto negli
occhi.
-Non mi piacciono gli addii alle
stazioni.-disse-Tu prometti che mi scriverai.-
Gli addii alle stazioni. No, non voglio pensare. Basta.
Giovanni sollevò la valigia.
-Ti scriverò presto.-disse, poi
prese la mano di Sibilla e portò alle labbra le sue dita.
Gli addii alle stazioni. Zitto.
Abbracciò Sibilla, rimasero
stretti un poco. Gli parve che lei mormorasse...caro...amore...e si ricordò del
pomeriggio. Sibilla pedalava su per la strada alberata, veloce, giovane e
libera, con le gonne che salivano sulle gambe. Sibilla s'era voltata a
chiamarlo.
-Sei fuori allenamento!-gli aveva
gridato.
E per la prima volta Giovanni
aveva provato la nostalgia per i giorni che si lasciava alle spalle.
Quando salì sul treno e
sedette nello scompartimento vuoto accese ancora una sigaretta e pensò che
forse avrebbe sposato Sibilla.
fine della sesta parte
Nessun commento:
Posta un commento