lunedì 2 febbraio 2015

Noi cambieremo il mondo. Di Stefano Viaggio. Settima parte. Quinto episodio

Il Commendatore soffriva per  l'umidità.

In che affari mi vado a mischiare ancora? Coserelle di scugnizzi.

Una notte in bianco, solo perché gli avevano chiesto un favore.
Di ben altro s'era trattato quando era giovane! E dopo la guerra, quando certe cose stavano per prendere il verso sbagliato? Allora sì! La memoria di quest'uomo ormai sulla settantina riandava a quando aveva organizzato l'arrivo di armi dalla Svizzera, nascoste nel doppio fondo di un camion carico di scatole di vernice. Fucili mitragliatori, bombe a mano, pistole automatiche. Tutto in ottimo stato, l'aveva controllato lui stesso, e di fabbricazione tedesca. Ottima qualità. Poi non s'era fatto niente.

Meglio così.

I comunisti avevano perso le elezioni e non c'era stato bisogno di sparare un colpo. Ma nessuno era stato smobilitato. Con i titini alle porte! Un piccola pressione. Ogni tanto.

Come un ceffone a una donna, ogni tanto. Per ricordare chi comanda.

Ripeteva sempre quella frase il Commendatore, anche ora che se ne stava a prender l'umido e sapeva che le donne erano un altro bel ricordo. Si appoggiò alla macchina e accese il pezzo di toscano che s'era conservato. Poi s'accorse dei fari accesi che venivano avanti.
-Sono loro. In perfetto orario, il Vicentino è sempre puntuale.-mormorò il Commendatore. Fece qualche passo verso l'altra vettura che intanto s'era fermata sul ciglio della strada, sentì sul fianco la massa dura della pistola.

Non fidarsi è meglio.

Era le seconda metà del proverbio che l'aveva salvato in altre  situazioni difficili. Ma col Vicentino poteva stare tranquillo.
Era un uomo di media statura, s'era messo il cappotto buono per l'occasione. Venne avanti da solo, l'autista rimase in macchina.

Sono armati anche loro. E' naturale.

Chissà perché quella certezza, per la prima volta nella sua vita, inquietò il Commendatore.

Coserelle da scugnizzi.

-Sbrighiamoci che fa freddo.-
Il Commendatore parlava col tono antico della caserma.
-Tutto è apposto.-rispose il Vicentino. Il soprannome non nascondeva l'accento napoletano che non se n'era mai andato dopo tanti anni di permanenza al nord.
-I ragazzi sono già in città. Prima cominciamo dal liceo. Poi passiamo alle sezioni, un gruppo s'incarica di pulire i muri dai manifesti e se tutto va bene a Riva...-
Il Commendatore sollevò la mano destra.
-No, Riva no.-
-E perché, Commendatore?-
-Riva no. Colpire uno come Riva scatenerebbe un putiferio della madonna. E' un parlamentare, un ex partigiano. Gente che non scherza, che se li fuma i tuoi scugnizzi. E per ora a quelli come Riva ci pensa chi ci deve pensare. Intesi.-
-Agli ordini.-
Il Vicentino era deluso, ma s'era quasi messo sull'attenti.
Il Commendatore estrasse una busta dalla tasca della giacca.
-Ecco qua. E non vi ci abituate, che le elezioni non vengono tutti i giorni.-
Il Vicentino mentre prendeva i soldi fece un sorriso, sembrò esitare.
-Che c'è?-fece il Commendatore.
-Come ai vecchi tempi?-disse allora il Vicentino con un  tono diverso, amichevole.-State sempre in salute voi, come un giovanotto.-
Il Commendatore sentì la puzza di cattiva brillantina e l'odore era forte perché quello non s'era nemmeno messo il cappello. Tutto nel Vicentino gli ricordava la caserma e quelle canzoni inutili...
"...le donne non ci vogliono più bene..."

Chissà in quale bordello te li vai a spendere.

Quello sorrideva.
-Che tempi? Io e te non ci siamo mai conosciuti, ricordatelo bene. E, mi raccomando. Cose da persone serie.-
Il Commendatore girò sui tacchi e si diresse verso la sua automobile. Non sentì il Vicentino che fra i denti gli indirizzava un:
-Possi crepare all'inferno, strunzone.-
                          
Dai comunisti quella sera si ballava perché non erano stati cancellati dalla storia, come avevano chiesto i loro avversari nei comizi finali della campagna elettorale. Il Partito Comunista restava il secondo partito in Italia, aumentava in voti e in percentuale. I manifesti con i carri armati che schiacciavano gli studenti ungheresi non avevano cambiato il voto operaio, contadino e popolare.
-Questa è la realtà.- dissero in sezione commentando i primi risultati.
E nemmeno i fatti avvenuti qua e là, erano serviti a mettere paura alla gente. In città era cominciato con due studenti che diffondevano  manifestini sulla tortura in Algeria. I ragazzi erano  stati aggrediti una mattina nei pressi del Liceo. All'altezza di una fontana che schizzava l'acqua dalla bocca di un toro, attendeva una vecchia Lancia e quasi sbarrava la strada ai passanti. Dalla macchina erano scesi quattro giovanotti mai visti in città, senza tante chiacchiere avevano spinto i ragazzi contro il muro e avevano cominciato a picchiare con calci e pugni. Dopo aver strappato i volantini, i quattro, risaliti in macchina, s'erano dissolti nella mattina nebbiosa. Un passante era riuscito a prendere il numero di targa della Lancia, ma non era servito a niente. Al commissariato avevano risposto che avrebbero seguito le normali prassi investigative per accertare le circostanze dell'incidente. Il commissario ci teneva a dire:
-Incidenti fra giovani di opposte fazioni, Onorevole Riva.-
E Giovanni gli aveva riso in faccia.
-Gli aggressori, i fascisti insomma, venivano da Torino.-aveva ribattuto.
-Onorevole, lei salta subito a certe conclusioni. Chi le assicura che si tratti di...-
-Fascisti. Ha paura della parola. Fascisti! Guardi, ci sono ancora, e voi li conoscete bene.-
Il Commissario s'innervosiva.
-Cosa intende dire Onorevole Riva? Noi facciamo il nostro lavoro.-
-Il compito di mantenere l'ordine è suo, commissario. E anche quello di far rispettare la legge.-
-Una minaccia?-
-Io la richiamo ai suoi doveri di tutore dell'ordine pubblico, quando due giovani vengono aggrediti davanti a una scuola da individui sconosciuti...-
-Il Liceo della città, Onorevole Riva!-
-Lo so, il Liceo della città. Ci sono stato anch'io in quella scuola...Il Liceo. Lei ha ragione signor commissario, che ci siano giovani democratici in quella scuola, ragazzi che parlano di democrazia e libertà, della lotta nel mondo...-
-Onorevole Riva questa non è una pubblica piazza...-
-Se lo lasci dire commissario: a qualcuno da fastidio che nel liceo cittadino ci siano studenti comunisti, per questo hanno mandato i fascisti. Noi vogliamo sapere chi è il mandante di questa aggressione. Lei è responsabile di quello che può accadere in città!-
-Io non le permetto di...-
Giovanni Riva aveva voltato le spalle al Commissario e s'era sbattuto dietro la porta dell'ufficio lasciando l'uomo sui quarantacinque anni, il fazzolettino ben piegato nel taschino della giacca, con i pugni stretti sino a farsi male. Se non fosse stato per l'immunità parlamentare, avrebbe volentieri sbattuto Riva in galera. Come si permetteva!
Ai compagni Giovanni aveva detto:
-Occorre prudenza, ma se è necessario ci difenderemo. Niente azioni incontrollate, questi cercano l'incidente e non lo avranno.-
L'incendio a un banchetto dell'Unità era seguito all'aggressione dei due ragazzi, una bomba incendiaria era stata lanciata di notte  contro il portone della Federazione del PCI. Nessuno l'aveva detto o scritto, ma gli attentatori non avevano fatto in tempo a tirare la prima bottiglia incendiaria  che sulle loro teste erano fischiati i proiettili. Due, tre colpi di moschetto sparati volutamente in aria. Gli ex partigiani s'erano organizzati e avevano atteso,  dandosi il cambio per molte notti di seguito. Quei colpi di fucile erano il segnale che lo scherzo dura poco. L'indomani un corteo antifascista era sfilato per le strade della città sino a Piazza della Vittoria, sul palco erano saliti i compagni che avevano fatto la lotta clandestina. Clotilde, accanto a Giovanni che parlava al microfono, aveva riconosciuto Agnese nella folla. Era andata alla manifestazione e s'era portata anche Tiziana.

Il martedì successivo alla domenica delle elezioni, il PCI era ancora il primo partito in città.
I fazzoletti rossi a Giovanni sembravano fiori per il futuro, le gonne erano vele, mosse dal vento e pronte, se necessario, anche a volare al suono di vecchi valzer contadini che nonni e nonne di quei comunisti, avevano già ballato sulle aie al tempo della mietitura. Ma si suonavano anche le musiche nuove quella sera. La gente chiedeva di ascoltare l'aria della canzone vincitrice del Festival di San Remo.
"Nel blu dipinto di blu..."
Giovanni provò a fischiettare in mezzo al vociare dei compagni. Lui fumava molto, rispondeva a chi gli chiedeva se i socialisti erano ormai decisi a rompere con la sinistra e andare dai democristiani. Gli mettevano fra le mani tabelle con voti e percentuali. La sua rielezione in Parlamento  provava che la gente si fidava ancora di uomini con il suo passato. C'erano molte ragazze quella sera, e belle. Donne giovani, venute in compagnia di madri e padri, curiose di sapere chi aveva vinto le elezioni. I preti o il popolo? Giovanni pensava che fra poco gli sarebbe toccato di ballare con una di loro e non smetteva di pensare al giorno della manifestazione. Anche lui aveva visto una donna, gli era sembrato di riconoscere Agnese e quando tutto era finito, l'aveva cercata fra i tanti volti, gente che voleva salutarlo e stringergli la mano, ma Agnese non era venuta per farsi riconoscere. Forse non era lei la donna con la camicetta celeste e i capelli neri, lunghi sulle spalle. Il dubbio aveva frenato la decisione di telefonare.
Mentre dava ancora un'occhiata ai risultati delle frazioni di campagna in cui c'era stato un leggero calo di voti, pensava che prima di tornare a Roma avrebbe visto Agnese.

Debbo andare da Clotilde, debbo chiederle notizie di Agnese.

Quella sera Clotilde non era venuta perché i reumatismi non le davano tregua.

Certamente hanno continuato a vedersi. Agnese saprà tutto di me.

-Guarda un po' Riva.-disse qualcuno. Giovanni gettò uno sguardo agli ultimi risultati, i definitivi dei paesi più vicini. La propaganda della Coldiretti aveva fatto breccia, un po' di voti fra i contadini li avevano persi.
-Teniamo bene.-disse Giovanni.
Nella confusione e nell'affollamento aveva davanti la faccia preoccupata di un compagno che conosceva solo di vista. Era il segretario di una cellula che raccoglieva iscritti fra  gli abitanti dei villaggi più alti,  dove comincia la montagna.
-Se tutto filasse liscio chissà da quando saremmo al potere! Occorre recuperare i voti persi, riunite i compagni. Da domani.-disse Giovanni al compagno preoccupato.

Ma cosa sto dicendo?
                                                    
Com'era possibile che quella sera, lui, Giovanni Riva, l'artefice di una vittoria elettorale importante, fosse l'unica persona infelice in mezzo a tanta allegria?

Perché ora e subito, io non posso andar via di qui?

A coloro che lo avrebbero guardato con  stupore cos'avrebbe risposto? Niente.
Le facce interrogavano lui, l'intellettuale antifascista, il partigiano, l'erede della famiglia ricca che volta le spalle al privilegio per stare con la povera gente, ne condivide le miserie e le speranze. L'allegria  oggi. La tristezza degli edili sotto la pioggia. Il silenzio dei meridionali dietro le persiane che non si aprono. La rabbia per i manifesti strappati e DUX scritto sui muri.

Io li odio.

E gli sembrò di impazzire.

Sono loro. E' questa festa che m'impedisce di andarmene a cercare Agnese.

Pensò di inventare una scusa. Si sarebbe allontanato e avrebbe raggiunto la villetta in cui abitava "la signora Vairos", così la chiamavano ora in città.

Scommetto che vota per i socialisti.

Gli misero in mano un foglio con altri seggi scrutinati e altri voti dalla campagna. Le cose andavano meglio, anzi, decisamente meglio.

Sibilla… Cosa fa in questo momento?

Giovanni immaginò il marito di Sibilla. Lo vide di spalle, con le maniche della camicia rimboccate sui gomiti e le mani di quest'uomo, forti mani  che di notte accarezzavano Sibilla. Con quell'uomo Sibilla avrebbe avuto uno, due, tre bambini...

Debbo vedere Agnese.

Era stato rieletto in quel collegio,  sentiva di avere delle responsabilità verso la gente che lo aveva votato. E allora sarebbe tornato spesso al nord. Voleva capire chi era l'operaio dentro le fabbriche nuove e parlare con i giovani meridionali che aspettavano il lavoro dietro i cancelli.
Capire e interpretare il nuovo: era questo il traguardo.
Guardò i ragazzi venuti a ballare alla festa dei comunisti. Com'erano diversi dai giovani partigiani, dai contadini rossi con cui aveva bevuto e discusso sino a notte alta quando andava a trovare Sibilla. Sì, erano diversi. E c'erano ancora tante cose da fare. Troppe.

Che ne sarà di me se non vedo Agnese prima di partire?

Un dolore gli trafisse lo stomaco e subito il sudore freddo gli ghiacciò la fronte. E fu un caso che Marco si trovasse accanto a lui.
Giovanni si guardò intorno, era come se chiedesse aiuto.
-Che hai Riva, stai male?-
-Un po' stanco.-
Giovanni compì un grande sforzo per controllarsi e nuovamente sudò freddo. Udì una voce che si rivolgeva a lui.
-Per favore, il compagno Riva...lascialo repirare...-disse Marco. Giovanni fece un gesto e si volse per rispondere, sentì che lo tiravano via.
-Vieni Riva. Vieni con me.-diceva Marco.
Lo trascinò lontano dalla folla e dal rumore, camminarono senza parlare per un tratto di viale alberato. La ritrovata pace, unita a una brezza leggera, fece bene a Giovanni.
-Non ne potevo più.-
Rivolse a Marco uno sguardo di gratitudine.
-Ho capito che non stavi bene. I compagni sono contenti per la vittoria e...-
-Tutti siamo contenti. Il risultato è molto importante.-
Giovanni usò un tono quasi brusco, continuarono a camminare. Dietro un albero c'era una coppia, si baciavano.
-Torniamo indietro.-disse Giovanni.
La fuga improvvisa gli sembrò una sciocchezza.
-Sei sicuro di star bene?-
-Torniamo, non preoccuparti.-
Volsero le spalle alla notte. Giovanni avvertì il battito del suo cuore.

L'Onorevole Giovanni Riva stroncato da un infarto il giorno delle vittoria del PCI nella sua città. Il dirigente comunista...

Questo avrebbero scritto i giornali. Un brivido attraversò Giovanni per tutto il corpo e mano a mano che si avvicinavano alla festa il rumore cresceva. Ma la musica s'interruppe di colpo, Ferrero, il responsabile dell'organizzazione, era salito sul palco.
-Compagni.-disse al microfono-Volevo leggere i risultati definitivi nella  città e in provincia. E' arrivato un comunicato della Direzione del partito. Vi ricordo che è pronta l'edizione straordinaria dell'Unità e già i compagni si stanno organizzando per la diffusione di domani mattina. Servono altri volontari.-
Ferrero parlava e cercava Giovanni fra la folla.
-Vieni Marco, ci aspettano.-disse Giovanni, accelerò il passo e fece un gesto. Ferrero prima di leggere i risultati attese che il compagno Riva fosse accanto a lui.
                             
Restare ancora per l'ultimo bicchiere di vino da bere insieme ai compagni. Qualcuno guardò l'orologio, a quell'ora non valeva la pena andare a dormire, costava meno fatica tirare sino all'alba, ritirare i giornali e raggiungere le fabbriche per l'entrata del primo turno.
Giovanni sedeva attorno al tavolo insieme ai compagni del direttivo della Federazione. Con la notte tiepida, l'ultima bottiglia era proprio giusta. Un buon vino di collina. Era l'Italia contadina e partigiana che piaceva a Giovanni. Desiderò andare sino ad Alba in macchina, per  guardare le colline e la luna, aspettare i falò. Giovanni sorrise.

Perchè tornare a Roma?

Due compagni trafficavano attorno alla pompa dell'acqua che aveva smesso di funzionare; il più giovane toccò il braccio di quello più anziano. L'altro sollevò il capo con l'espressione incarognita di chi è stanco, vorrebbe andarsene  e non può.
-Guarda chi c'è.-disse indicando l'entrata del parco. L'altro si volse e vide Agnese Vairos.
-La Vairos? E' diventata nottambula. E che ci viene a fare qui?-
Il giovane sorrise con l'aria di saper quello che tutti sanno, ma di cui nessuno parla.
-Allora?-fece il più vecchio e  qualcosa venne su dalla memoria.
-Tu non sai niente?-
-E che c'è da sapere?-mentì il compagno anziano.
-Ma va. Lo dicono tutti che la Vairos e Riva si son conosciuti bene una volta.-
Il compagno guardava Agnese, s'era fermata sotto un lampione volante appeso al ramo di un albero. Fece un passo indietro, come colta da improvviso timore, e rientrò nell'oscurità. Il compagno conosceva la Vairos, sua moglie aveva lavorato  per due anni alla "Lampo". Si sollevò  e lentamente raggiunse Agnese, quando le fu vicino scambiò con lei qualche parola. Poi, sempre con la lentezza che misurava tutta la stanchezza della giornata, si avvicinò ai dirigenti e chinandosi alle spalle di Giovanni gli mormorò qualcosa all'orecchio.
                            
Il netturbino spazzava il selciato in Piazza della Vittoria e ringraziava Dio che le elezioni fossero passate.
-Alle prossime! Tanto a me, sempre scopare carta, tocca.-
Non ne poteva più di tutta quella carta. Gli avevano detto che i comunisti erano andati bene; il netturbino non s'interessava di politica, leggeva solo La Gazzetta dello Sport. Ma la notizia gli faceva piacere.
Il netturbino si volse a guardare la coppia seduta sui gradini della fontana, si grattò la testa e pensò che al mondo ce n'era di gente che campava senza il pensiero di doversi alzare ogni mattina per andare a lavorare.
-Beati loro.-
E continuò a radunare cartacce.
Agnese accese una sigaretta.
-Sei stanco?-
-Vorrei che non venisse mai giorno. Mi piacerebbe andare in giro per questa città ancora una notte e poi un'altra ancora e poi...-
-E poi?-
-Mi sono accorto che questo luogo mi manca. Questa piazza,  laggiù il Borgo Vecchio. Il Liceo.-
Giovanni indicò il viale.
-C'era lo studio di mio padre.-
Agnese chinò il capo a guardarsi la punta delle scarpe, si vergognava un poco ma aveva voglia di togliersele perché i piedi le facevano male.
-Sono passati anni...-disse quasi parlando a se stessa.
-Non sarei ripartito senza vederti e tu hai fatto lo stesso. E' vero, sono passati anni, non ci siamo scritti nemmeno un rigo eppure siamo qui, in Piazza della Vittoria, sono le sei del mattino. Perché abbiamo passeggiato per tutta la notte? E atteso l'alba? Non ci vedi qualcosa di assolutamente...-
-Credi a queste cose?-
-No.-
Giovanni attese prima di proseguire.
-E' la vita forse. Bisogna giocarla come una partita: l'importante è che le carte, la stecca del bigliardo, il pallone, quello che vuoi…sia nelle nostre mani.-
-E le tue carte le hai avute sempre nelle mani? Sempre?-
Giovanni voleva essere onesto con Agnese. In quei pochi secondi la vita gli passò davanti agli occhi.
-Lo spero.-
Agnese si sollevò in piedi e gli tese la mano. Camminarono un poco mano nella mano, Giovanni comprese dove voleva condurlo.
-Sono venuta spesso qui.-disse Agnese quando furono nel giardino che si affacciava sul fiume, davanti all'antica torre.
-Camminavo lungo il fiume, sedevo su una panchina, guardavo la torre e mi veniva in mente quel giorno. Ero quasi una bambina, ero appena scesa dalle montagne. Mi veniva da piangere. Lo sai? Poi...-
Agnese si fermò. Giovanni attese, in lui si fondevano insieme l'emozione e una forte attrazione fisica per Agnese.
-Poi sentivo la voce di Tiziana e correvo da lei che giocava con la ghiaia, le pulivo le mani per paura che prendesse qualcosa...-
-Tiziana...-
-Non te l'hanno detto? Ho una figlia.-
Giovanni scosse il capo. No, nessuno con lui s'era azzardato a far pettegolezzi sulla Vairos.
-E' nata nel cinquantuno, fa la seconda elementare...E' mia figlia, solo mia.-
Quell'ultima precisazione intimorì un poco Giovanni. Ignorava il giuramento segreto pronunciato una sera di lacrime e solitudine.

Come si parla a una bambina di sette anni?

Vide questa bambina che osservava prima lo sconosciuto signore e poi cercava sicurezza rivolgendosi alla madre.
-Quando me la fai conoscere, Tiziana?-
Agnese allora mosse un passo e si avvicinò alla balaustra di ferro, guardò la torre in cui l'innamorato aveva atteso che la principessa lo liberasse dalla lunga prigionia.
Fu ancora Giovanni a parlare.
-Spero molto presto. Non è vero, Agnese?-
Le loro vite s'erano incontrate e poi divise, ora stavano di nuovo lì, nel luogo in cui un ragazzo tanti anni prima aveva scritto nella lingua degli antichi "io ti voglio bene" per una piccola cameriera. E l'immagine della torre, riflessa nel fiume raccontava una storia accaduta secoli prima, e in una villetta di periferia c'era una bambina che dormiva sorvegliata da un'anziana signora, Clotilde. La Vedova Rossa vegliava in attesa di una notizia. Fra poco Tiziana avrebbe chiesto di affrontare un'altra giornata della sua vita. Agnese pensò che tutto fosse come il percorso di  un cerchio magico che giunge al suo compimento e si chiude. Erano passati ventidue anni. Chiuse gli occhi, poi li dischiuse per ricevere nello sguardo l'oro del sole che si spezzava in mille frammenti nel vecchio fiume. Sentì la mano di Giovanni prendere la sua, si volse e lo baciò sulle labbra.
A quell'ora passavano le biciclette sul lungo fiume, qualcuno vide due persone abbracciate, i volti confusi in un lungo bacio, mandò un fischio e si allontanò, perdendosi nella città e nel nuovo giorno che cominciava. Agnese accostò le labbra all'orecchio di Giovanni.
-Ci sono altre cose che non sai...-mormorò.

                                                    fine della settima parte

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