Il Commendatore soffriva per l'umidità.
In che affari mi vado a mischiare ancora? Coserelle di scugnizzi.
Una notte in bianco, solo perché
gli avevano chiesto un favore.
Di ben altro s'era trattato
quando era giovane! E dopo la guerra, quando certe cose stavano per prendere il
verso sbagliato? Allora sì! La memoria di quest'uomo ormai sulla settantina
riandava a quando aveva organizzato l'arrivo di armi dalla Svizzera, nascoste
nel doppio fondo di un camion carico di scatole di vernice. Fucili
mitragliatori, bombe a mano, pistole automatiche. Tutto in ottimo stato,
l'aveva controllato lui stesso, e di fabbricazione tedesca. Ottima qualità. Poi
non s'era fatto niente.
Meglio così.
I comunisti avevano perso le elezioni e non
c'era stato bisogno di sparare un colpo. Ma nessuno era stato smobilitato. Con
i titini alle porte! Un piccola pressione. Ogni tanto.
Come un ceffone a una donna, ogni tanto. Per ricordare chi comanda.
Ripeteva sempre quella frase il
Commendatore, anche ora che se ne stava a prender l'umido e sapeva che le donne
erano un altro bel ricordo. Si appoggiò alla macchina e accese il pezzo di
toscano che s'era conservato. Poi s'accorse dei fari accesi che venivano avanti.
-Sono loro. In perfetto orario,
il Vicentino è sempre puntuale.-mormorò il Commendatore. Fece qualche passo
verso l'altra vettura che intanto s'era fermata sul ciglio della strada, sentì
sul fianco la massa dura della pistola.
Non fidarsi è meglio.
Era le seconda metà del proverbio
che l'aveva salvato in altre situazioni
difficili. Ma col Vicentino poteva stare tranquillo.
Era un uomo di media statura,
s'era messo il cappotto buono per l'occasione. Venne avanti da solo, l'autista
rimase in macchina.
Sono armati anche loro. E' naturale.
Chissà perché quella certezza,
per la prima volta nella sua vita, inquietò il Commendatore.
Coserelle da scugnizzi.
-Sbrighiamoci che fa freddo.-
Il Commendatore parlava col tono
antico della caserma.
-Tutto è apposto.-rispose il
Vicentino. Il soprannome non nascondeva l'accento napoletano che non se n'era
mai andato dopo tanti anni di permanenza al nord.
-I ragazzi sono già in città.
Prima cominciamo dal liceo. Poi passiamo alle sezioni, un gruppo s'incarica di
pulire i muri dai manifesti e se tutto va bene a Riva...-
Il Commendatore sollevò la mano
destra.
-No, Riva no.-
-E perché, Commendatore?-
-Riva no. Colpire uno come Riva
scatenerebbe un putiferio della madonna. E' un parlamentare, un ex partigiano.
Gente che non scherza, che se li fuma i tuoi scugnizzi. E per ora a quelli come
Riva ci pensa chi ci deve pensare. Intesi.-
-Agli ordini.-
Il Vicentino era deluso, ma s'era
quasi messo sull'attenti.
Il Commendatore estrasse una
busta dalla tasca della giacca.
-Ecco qua. E non vi ci abituate,
che le elezioni non vengono tutti i giorni.-
Il Vicentino mentre prendeva i
soldi fece un sorriso, sembrò esitare.
-Che c'è?-fece il Commendatore.
-Come ai vecchi tempi?-disse
allora il Vicentino con un tono diverso,
amichevole.-State sempre in salute voi, come un giovanotto.-
Il Commendatore sentì la puzza di
cattiva brillantina e l'odore era forte perché quello non s'era nemmeno messo
il cappello. Tutto nel Vicentino gli ricordava la caserma e quelle canzoni
inutili...
"...le donne non ci vogliono
più bene..."
Chissà in quale bordello te li vai a spendere.
Quello sorrideva.
-Che tempi? Io e te non ci siamo
mai conosciuti, ricordatelo bene. E, mi raccomando. Cose da persone serie.-
Il Commendatore girò sui tacchi e
si diresse verso la sua automobile. Non sentì il Vicentino che fra i denti gli
indirizzava un:
-Possi crepare all'inferno,
strunzone.-
Dai comunisti quella sera si
ballava perché non erano stati cancellati dalla storia, come avevano chiesto i
loro avversari nei comizi finali della campagna elettorale. Il Partito
Comunista restava il secondo partito in Italia, aumentava in voti e in
percentuale. I manifesti con i carri armati che schiacciavano gli studenti
ungheresi non avevano cambiato il voto operaio, contadino e popolare.
-Questa è la realtà.- dissero in
sezione commentando i primi risultati.
E nemmeno i fatti avvenuti qua e
là, erano serviti a mettere paura alla gente. In città era cominciato con due
studenti che diffondevano manifestini
sulla tortura in Algeria. I ragazzi erano
stati aggrediti una mattina nei pressi del Liceo. All'altezza di una
fontana che schizzava l'acqua dalla bocca di un toro, attendeva una vecchia
Lancia e quasi sbarrava la strada ai passanti. Dalla macchina erano scesi
quattro giovanotti mai visti in città, senza tante chiacchiere avevano spinto i
ragazzi contro il muro e avevano cominciato a picchiare con calci e pugni. Dopo
aver strappato i volantini, i quattro, risaliti in macchina, s'erano dissolti nella
mattina nebbiosa. Un passante era riuscito a prendere il numero di targa della
Lancia, ma non era servito a niente. Al commissariato avevano risposto che
avrebbero seguito le normali prassi investigative per accertare le circostanze
dell'incidente. Il commissario ci teneva a dire:
-Incidenti fra giovani di opposte
fazioni, Onorevole Riva.-
E Giovanni gli aveva riso in
faccia.
-Gli aggressori, i fascisti
insomma, venivano da Torino.-aveva ribattuto.
-Onorevole, lei salta subito a
certe conclusioni. Chi le assicura che si tratti di...-
-Fascisti. Ha paura della parola.
Fascisti! Guardi, ci sono ancora, e voi li conoscete bene.-
Il Commissario s'innervosiva.
-Cosa intende dire Onorevole
Riva? Noi facciamo il nostro lavoro.-
-Il compito di mantenere l'ordine
è suo, commissario. E anche quello di far rispettare la legge.-
-Una minaccia?-
-Io la richiamo ai suoi doveri di
tutore dell'ordine pubblico, quando due giovani vengono aggrediti davanti a una
scuola da individui sconosciuti...-
-Il Liceo della città, Onorevole
Riva!-
-Lo so, il Liceo della città. Ci
sono stato anch'io in quella scuola...Il Liceo. Lei ha ragione signor
commissario, che ci siano giovani democratici in quella scuola, ragazzi che
parlano di democrazia e libertà, della lotta nel mondo...-
-Onorevole Riva questa non è una
pubblica piazza...-
-Se lo lasci dire commissario: a
qualcuno da fastidio che nel liceo cittadino ci siano studenti comunisti, per
questo hanno mandato i fascisti. Noi vogliamo sapere chi è il mandante di
questa aggressione. Lei è responsabile di quello che può accadere in città!-
-Io non le permetto di...-
Giovanni Riva aveva voltato le
spalle al Commissario e s'era sbattuto dietro la porta dell'ufficio lasciando
l'uomo sui quarantacinque anni, il fazzolettino ben piegato nel taschino della
giacca, con i pugni stretti sino a farsi male. Se non fosse stato per
l'immunità parlamentare, avrebbe volentieri sbattuto Riva in galera. Come si
permetteva!
Ai compagni Giovanni aveva detto:
-Occorre prudenza, ma se è
necessario ci difenderemo. Niente azioni incontrollate, questi cercano
l'incidente e non lo avranno.-
L'incendio a un banchetto
dell'Unità era seguito all'aggressione dei due ragazzi, una bomba incendiaria
era stata lanciata di notte contro il
portone della Federazione del PCI. Nessuno l'aveva detto o scritto, ma gli
attentatori non avevano fatto in tempo a tirare la prima bottiglia
incendiaria che sulle loro teste erano
fischiati i proiettili. Due, tre colpi di moschetto sparati volutamente in
aria. Gli ex partigiani s'erano organizzati e avevano atteso, dandosi il cambio per molte notti di seguito.
Quei colpi di fucile erano il segnale che lo scherzo dura poco. L'indomani un
corteo antifascista era sfilato per le strade della città sino a Piazza della
Vittoria, sul palco erano saliti i compagni che avevano fatto la lotta
clandestina. Clotilde, accanto a Giovanni che parlava al microfono, aveva
riconosciuto Agnese nella folla. Era andata alla manifestazione e s'era portata
anche Tiziana.
Il martedì successivo alla
domenica delle elezioni, il PCI era ancora il primo partito in città.
I fazzoletti rossi a Giovanni
sembravano fiori per il futuro, le gonne erano vele, mosse dal vento e pronte,
se necessario, anche a volare al suono di vecchi valzer contadini che nonni e
nonne di quei comunisti, avevano già ballato sulle aie al tempo della
mietitura. Ma si suonavano anche le musiche nuove quella sera. La gente
chiedeva di ascoltare l'aria della canzone vincitrice del Festival di San Remo.
"Nel blu dipinto di
blu..."
Giovanni provò a fischiettare in
mezzo al vociare dei compagni. Lui fumava molto, rispondeva a chi gli chiedeva
se i socialisti erano ormai decisi a rompere con la sinistra e andare dai
democristiani. Gli mettevano fra le mani tabelle con voti e percentuali. La sua
rielezione in Parlamento provava che la
gente si fidava ancora di uomini con il suo passato. C'erano molte ragazze
quella sera, e belle. Donne giovani, venute in compagnia di madri e padri,
curiose di sapere chi aveva vinto le elezioni. I preti o il popolo? Giovanni
pensava che fra poco gli sarebbe toccato di ballare con una di loro e non
smetteva di pensare al giorno della manifestazione. Anche lui aveva visto una
donna, gli era sembrato di riconoscere Agnese e quando tutto era finito,
l'aveva cercata fra i tanti volti, gente che voleva salutarlo e stringergli la
mano, ma Agnese non era venuta per farsi riconoscere. Forse non era lei la
donna con la camicetta celeste e i capelli neri, lunghi sulle spalle. Il dubbio
aveva frenato la decisione di telefonare.
Mentre dava ancora un'occhiata ai
risultati delle frazioni di campagna in cui c'era stato un leggero calo di
voti, pensava che prima di tornare a Roma avrebbe visto Agnese.
Debbo andare da Clotilde, debbo chiederle notizie di Agnese.
Quella sera Clotilde non era
venuta perché i reumatismi non le davano tregua.
Certamente hanno continuato a vedersi. Agnese saprà tutto di me.
-Guarda un po' Riva.-disse
qualcuno. Giovanni gettò uno sguardo agli ultimi risultati, i definitivi dei
paesi più vicini. La propaganda della Coldiretti aveva fatto breccia, un po' di
voti fra i contadini li avevano persi.
-Teniamo bene.-disse Giovanni.
Nella confusione e
nell'affollamento aveva davanti la faccia preoccupata di un compagno che
conosceva solo di vista. Era il segretario di una cellula che raccoglieva
iscritti fra gli abitanti dei villaggi
più alti, dove comincia la montagna.
-Se tutto filasse liscio chissà
da quando saremmo al potere! Occorre recuperare i voti persi, riunite i compagni.
Da domani.-disse Giovanni al compagno preoccupato.
Ma cosa sto dicendo?
Com'era possibile che quella
sera, lui, Giovanni Riva, l'artefice di una vittoria elettorale importante,
fosse l'unica persona infelice in mezzo a tanta allegria?
Perché ora e subito, io non posso andar via di qui?
A coloro che lo avrebbero
guardato con stupore cos'avrebbe
risposto? Niente.
Le facce interrogavano lui,
l'intellettuale antifascista, il partigiano, l'erede della famiglia ricca che
volta le spalle al privilegio per stare con la povera gente, ne condivide le
miserie e le speranze. L'allegria oggi.
La tristezza degli edili sotto la pioggia. Il silenzio dei meridionali dietro
le persiane che non si aprono. La rabbia per i manifesti strappati e DUX
scritto sui muri.
Io li odio.
E gli sembrò di impazzire.
Sono loro. E' questa festa che m'impedisce di andarmene a cercare Agnese.
Pensò di inventare una scusa. Si
sarebbe allontanato e avrebbe raggiunto la villetta in cui abitava "la
signora Vairos", così la chiamavano ora in città.
Scommetto che vota per i socialisti.
Gli misero in mano un foglio con altri
seggi scrutinati e altri voti dalla campagna. Le cose andavano meglio, anzi,
decisamente meglio.
Sibilla… Cosa fa in questo momento?
Giovanni immaginò il marito di
Sibilla. Lo vide di spalle, con le maniche della camicia rimboccate sui gomiti e
le mani di quest'uomo, forti mani che di
notte accarezzavano Sibilla. Con quell'uomo Sibilla avrebbe avuto uno, due, tre
bambini...
Debbo vedere Agnese.
Era stato rieletto in quel
collegio, sentiva di avere delle
responsabilità verso la gente che lo aveva votato. E allora sarebbe tornato
spesso al nord. Voleva capire chi era l'operaio dentro le fabbriche nuove e
parlare con i giovani meridionali che aspettavano il lavoro dietro i cancelli.
Capire e interpretare il nuovo:
era questo il traguardo.
Guardò i ragazzi venuti a ballare
alla festa dei comunisti. Com'erano diversi dai giovani partigiani, dai
contadini rossi con cui aveva bevuto e discusso sino a notte alta quando andava
a trovare Sibilla. Sì, erano diversi. E c'erano ancora tante cose da fare.
Troppe.
Che ne sarà di me se non vedo Agnese prima di partire?
Un dolore gli trafisse lo stomaco
e subito il sudore freddo gli ghiacciò la fronte. E fu un caso che Marco si
trovasse accanto a lui.
Giovanni si guardò intorno, era
come se chiedesse aiuto.
-Che hai Riva, stai male?-
-Un po' stanco.-
Giovanni compì un grande sforzo
per controllarsi e nuovamente sudò freddo. Udì una voce che si rivolgeva a lui.
-Per favore, il compagno
Riva...lascialo repirare...-disse Marco. Giovanni fece un gesto e si volse per
rispondere, sentì che lo tiravano via.
-Vieni Riva. Vieni con me.-diceva
Marco.
Lo trascinò lontano dalla folla e
dal rumore, camminarono senza parlare per un tratto di viale alberato. La
ritrovata pace, unita a una brezza leggera, fece bene a Giovanni.
-Non ne potevo più.-
Rivolse a Marco uno sguardo di
gratitudine.
-Ho capito che non stavi bene. I
compagni sono contenti per la vittoria e...-
-Tutti siamo contenti. Il
risultato è molto importante.-
Giovanni usò un tono quasi
brusco, continuarono a camminare. Dietro un albero c'era una coppia, si
baciavano.
-Torniamo indietro.-disse
Giovanni.
La fuga improvvisa gli sembrò una
sciocchezza.
-Sei sicuro di star bene?-
-Torniamo, non preoccuparti.-
Volsero le spalle alla notte.
Giovanni avvertì il battito del suo cuore.
L'Onorevole Giovanni Riva stroncato da un infarto il giorno delle vittoria
del PCI nella sua città. Il dirigente comunista...
Questo avrebbero scritto i
giornali. Un brivido attraversò Giovanni per tutto il corpo e mano a mano che
si avvicinavano alla festa il rumore cresceva. Ma la musica s'interruppe di
colpo, Ferrero, il responsabile dell'organizzazione, era salito sul palco.
-Compagni.-disse al
microfono-Volevo leggere i risultati definitivi nella città e in provincia. E' arrivato un
comunicato della Direzione del partito. Vi ricordo che è pronta l'edizione
straordinaria dell'Unità e già i compagni si stanno organizzando per la
diffusione di domani mattina. Servono altri volontari.-
Ferrero parlava e cercava
Giovanni fra la folla.
-Vieni Marco, ci aspettano.-disse
Giovanni, accelerò il passo e fece un gesto. Ferrero prima di leggere i
risultati attese che il compagno Riva fosse accanto a lui.
Restare ancora per l'ultimo
bicchiere di vino da bere insieme ai compagni. Qualcuno guardò l'orologio, a
quell'ora non valeva la pena andare a dormire, costava meno fatica tirare sino
all'alba, ritirare i giornali e raggiungere le fabbriche per l'entrata del
primo turno.
Giovanni sedeva attorno al tavolo
insieme ai compagni del direttivo della Federazione. Con la notte tiepida,
l'ultima bottiglia era proprio giusta. Un buon vino di collina. Era
l'Italia contadina e partigiana che piaceva a Giovanni. Desiderò andare sino ad
Alba in macchina, per guardare le
colline e la luna, aspettare i falò. Giovanni sorrise.
Perchè tornare a Roma?
Due compagni trafficavano attorno
alla pompa dell'acqua che aveva smesso di funzionare; il più giovane toccò il
braccio di quello più anziano. L'altro sollevò il capo con l'espressione
incarognita di chi è stanco, vorrebbe andarsene
e non può.
-Guarda chi c'è.-disse indicando
l'entrata del parco. L'altro si volse e vide Agnese Vairos.
-La Vairos ? E' diventata
nottambula. E che ci viene a fare qui?-
Il giovane sorrise con l'aria di
saper quello che tutti sanno, ma di cui nessuno parla.
-Allora?-fece il più vecchio
e qualcosa venne su dalla memoria.
-Tu non sai niente?-
-E che c'è da sapere?-mentì il
compagno anziano.
-Ma va. Lo dicono tutti che la Vairos e Riva si son
conosciuti bene una volta.-
Il compagno guardava Agnese,
s'era fermata sotto un lampione volante appeso al ramo di un albero. Fece un
passo indietro, come colta da improvviso timore, e rientrò nell'oscurità. Il
compagno conosceva la Vairos ,
sua moglie aveva lavorato per due anni alla
"Lampo". Si sollevò e
lentamente raggiunse Agnese, quando le fu vicino scambiò con lei qualche parola.
Poi, sempre con la lentezza che misurava tutta la stanchezza della giornata, si
avvicinò ai dirigenti e chinandosi alle spalle di Giovanni gli mormorò qualcosa
all'orecchio.
Il netturbino spazzava il
selciato in Piazza della Vittoria e ringraziava Dio che le elezioni fossero
passate.
-Alle prossime! Tanto a me,
sempre scopare carta, tocca.-
Non ne poteva più di tutta quella
carta. Gli avevano detto che i comunisti erano andati bene; il netturbino non
s'interessava di politica, leggeva solo La Gazzetta dello Sport. Ma la notizia gli faceva
piacere.
Il netturbino si volse a guardare
la coppia seduta sui gradini della fontana, si grattò la testa e pensò che al
mondo ce n'era di gente che campava senza il pensiero di doversi alzare ogni
mattina per andare a lavorare.
-Beati loro.-
E continuò a radunare cartacce.
Agnese accese una sigaretta.
-Sei stanco?-
-Vorrei che non venisse mai
giorno. Mi piacerebbe andare in giro per questa città ancora una notte e poi
un'altra ancora e poi...-
-E poi?-
-Mi sono accorto che questo luogo
mi manca. Questa piazza, laggiù il Borgo
Vecchio. Il Liceo.-
Giovanni indicò il viale.
-C'era lo studio di mio padre.-
Agnese chinò il capo a guardarsi
la punta delle scarpe, si vergognava un poco ma aveva voglia di togliersele
perché i piedi le facevano male.
-Sono passati anni...-disse quasi
parlando a se stessa.
-Non sarei ripartito senza
vederti e tu hai fatto lo stesso. E' vero, sono passati anni, non ci siamo
scritti nemmeno un rigo eppure siamo qui, in Piazza della Vittoria, sono le sei
del mattino. Perché abbiamo passeggiato per tutta la notte? E atteso l'alba?
Non ci vedi qualcosa di assolutamente...-
-Credi a queste cose?-
-No.-
Giovanni attese prima di
proseguire.
-E' la vita forse. Bisogna
giocarla come una partita: l'importante è che le carte, la stecca del
bigliardo, il pallone, quello che vuoi…sia nelle nostre mani.-
-E le tue carte le hai avute
sempre nelle mani? Sempre?-
Giovanni voleva essere onesto con
Agnese. In quei pochi secondi la vita gli passò davanti agli occhi.
-Lo spero.-
Agnese si sollevò in piedi e gli
tese la mano. Camminarono un poco mano nella mano, Giovanni comprese dove
voleva condurlo.
-Sono venuta spesso qui.-disse
Agnese quando furono nel giardino che si affacciava sul fiume, davanti
all'antica torre.
-Camminavo lungo il fiume, sedevo
su una panchina, guardavo la torre e mi veniva in mente quel giorno. Ero quasi
una bambina, ero appena scesa dalle montagne. Mi veniva da piangere. Lo sai?
Poi...-
Agnese si fermò. Giovanni attese,
in lui si fondevano insieme l'emozione e una forte attrazione fisica per
Agnese.
-Poi sentivo la voce di Tiziana e
correvo da lei che giocava con la ghiaia, le pulivo le mani per paura che
prendesse qualcosa...-
-Tiziana...-
-Non te l'hanno detto? Ho una
figlia.-
Giovanni scosse il capo. No,
nessuno con lui s'era azzardato a far pettegolezzi sulla Vairos.
-E' nata nel cinquantuno, fa la
seconda elementare...E' mia figlia, solo mia.-
Quell'ultima precisazione
intimorì un poco Giovanni. Ignorava il giuramento segreto pronunciato una sera
di lacrime e solitudine.
Come si parla a una bambina di sette anni?
Vide questa bambina che osservava
prima lo sconosciuto signore e poi cercava sicurezza rivolgendosi alla madre.
-Quando me la fai conoscere,
Tiziana?-
Agnese allora mosse un passo e si
avvicinò alla balaustra di ferro, guardò la torre in cui l'innamorato aveva
atteso che la principessa lo liberasse dalla lunga prigionia.
Fu ancora Giovanni a parlare.
-Spero molto presto. Non è vero,
Agnese?-
Le loro vite s'erano incontrate e
poi divise, ora stavano di nuovo lì, nel luogo in cui un ragazzo tanti anni
prima aveva scritto nella lingua degli antichi "io ti voglio bene"
per una piccola cameriera. E l'immagine della torre, riflessa nel fiume
raccontava una storia accaduta secoli prima, e in una villetta di periferia
c'era una bambina che dormiva sorvegliata da un'anziana signora, Clotilde. La Vedova Rossa vegliava
in attesa di una notizia. Fra poco Tiziana avrebbe chiesto di affrontare
un'altra giornata della sua vita. Agnese pensò che tutto fosse come il percorso
di un cerchio magico che giunge al suo
compimento e si chiude. Erano passati ventidue anni. Chiuse gli occhi, poi li
dischiuse per ricevere nello sguardo l'oro del sole che si spezzava in mille
frammenti nel vecchio fiume. Sentì la mano di Giovanni prendere la
sua, si volse e lo baciò sulle labbra.
A quell'ora passavano le
biciclette sul lungo fiume, qualcuno vide due persone abbracciate, i volti
confusi in un lungo bacio, mandò un fischio e si allontanò, perdendosi nella città
e nel nuovo giorno che cominciava. Agnese accostò le labbra all'orecchio di
Giovanni.
-Ci sono altre cose che non
sai...-mormorò.
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