Il chiarore filtrava fra le
imposte, Sibilla le dischiuse e guardò la Luna. Appesa nel
cielo nero sembrava pronta per consolare
gli affanni del mondo. Sibilla provò a interrogarla. La mai avvertita
vaghezza che si agitava in lei non si placava quella notte e non
riusciva a scacciar via la tristezza lasciata dalla partenza di Vincenzo.
Giovanni s'era chiuso in silenzi lunghi,
profondi e grandi, com'erano grandi i pensieri che certamente lo turbavano.
Sibilla sentiva salire sulle labbra una
verità che chiedeva di esser detta.
-Non mi basta.-mormorò.
Sul finire del pomeriggio,
Vicenzo era partito da un'ora, erano entrati nella sezione e s'erano trovati
davanti agli occhi la scena di sempre. Attorno al tavolo sedevano i compagni e
appesi al muro, ai lati delle bandiere, i ritratti, disegnati con tratto
sottile a china, di Stalin, di Lenin e Antonio Gramsci. I compagni s'erano
alzati in piedi per accogliere Giovanni Riva, quel dirigente che era il
compagno di Sibilla. Tutti erano a conoscenza della loro storia. Il segretario,
Maestri, aveva invitato Giovanni a presiedere la riunione e Giovanni aveva
accettato di parlare ancora dell'Ungheria, dei polacchi, di rispondere alla
domanda che tutti ormai ponevano apertamente.
-E' vero che Stalin ha ordinato i
delitti di cui lo accusano nel rapporto segreto?-
Il compagno, un uomo alto, dal
viso ossuto e con un gran naso aquilino, aveva guardato Giovanni diritto negli
occhi.
-Son bugie, vero Riva?- gli aveva
chiesto.
Giovanni, prima di rispondere,
aveva giocato per un momento con la penna a sfera posata accanto al quaderno.
Poi aveva parlato con parole misurate per spiegare al compagno che la realtà
oggettiva dei fatti dimostrava il contrario di quello che il nemico di classe
aveva messo in bocca al compagno Kruscev. E Sibilla aveva compreso che Giovanni
diceva cose che non pensava. Le sue parole, Sibilla questo lo sapeva bene,
servivano a tenere unita quella gente, difendevano e proteggevano le quattro
mura in cui si riunivano. Perché tutti, quando dicevano "vado in
sezione" intendevano dire casa,
chiesa, fortezza, rifugio per i
momenti peggiori. E Sibilla aveva desiderato andar via.
Ma dove? A Vercelli?
A quell'ora a Vercelli c'era il
passeggio degli impiegati. Insieme a mogli e figli, gli impiegati passeggiavano
e sostavano davanti alle vetrine illuminate. Uno diceva alla moglie "Fra
poco è Natale." E allora facevano progetti per un paio di scarpe nuove, un
cappottino, i giocattoli. Sibilla avrebbe voluto fermarsi davanti alla sua
vetrina preferita e contemplare un paio di scarpine lucide, con il tacco un po'
alto, come quelle delle signorine eleganti che la domenica andavano al
cinematografo di prima visione e poi al caffè. Prendevano i pasticcini e il tè
insieme ai fidanzati.
Che stupida.
E s'era vergognata del suo
desiderio.
Giovanni continuava a discutere con i compagni. Lo ascoltavano,
intervenivano, qualcuno scuoteva il capo, c'era chi pronunciava nomi di uomini
lontani, scomparsi, nomi in una lingua quasi sconosciuta. Sibilla sapeva che
fra quella gente Giovanni trovava la motivazione profonda della sua esistenza.
Ma si pentiva d'essersi data della stupida. Perché? Sarebbe stato bello per una
volta essere come le altre.
E se Giovanni mi dicesse che sono una piccola borghese. Che sto per
imboccare la strada dell'abbandono dei saldi principi?
Sibilla aveva guardato, uno dopo
l'altro, lentamente, fissandoli bene in viso, gli uomini che sedevano attorno
al tavolo. Quei compagni erano entrati nel partito da cinque, otto, dieci anni,
uno di essi, Clementi, durante la clandestinità aveva organizzato le lotte contro i salari troppo bassi dei
braccianti. Per questo era finito al confino. Altri avevano combattuto, erano
stati amici di Matteo. Ma...
Non è come pensi tu. No, è diverso. Tu non lo sai, ma prova a entrare in
casa loro. La tua famiglia, mi hai raccontato di tuo padre, di tua madre e di
quand'eri ragazzo, forse ti sembrerà un paradiso. La semplicità e l'ingenuità non esistono. Vieni ogni giorno
alla cooperativa, ascolta le confidenze delle donne...
Sibilla ora sentiva la tenue luce
della Luna scendere sino a lei.
E se Vincenzo avesse ragione? Un imbroglio. E Matteo è morto per un
imbroglio? No. Matteo era giovane e tutti ascoltavano la radio e speravano che
a Stalingrado...Quelli passavano vestiti di nero, cantavano canzonacce e
infastidivano le donne. Stalingrado era l'avvenire. Matteo voleva la libertà.
Che c'entra Stalin? E sarà poi vero che ha gridato quel nome prima di morire?
-Di Leopardi...Vaghe stelle
dell'Orsa, io non credea tornare...-mormorò, udì un debole rumore e
temette d'aver svegliato Giovanni.
Voleva restare ancora un poco sola. Lei e la Luna.
Stupida palla nel cielo, volto di
donna bianchissimo e terribile.
Per fortuna ci sei.
Si volse, Giovanni aveva solo
cambiato posizione. E le venne in mente precisa e nitida tutta la storia che le
aveva raccontato, solo un'ora prima.
Come il compagno dal grande naso,
gli aveva chiesto:
-Sono tutte bugie, non è vero
Giovanni?-
Lui per un momento aveva taciuto.
-No. Non sono tutte bugie.-
Giovanni aveva parlato senza
guardarla in viso, sorrideva a chissàchi. Forse a un altro essere, lontano da
Sibilla che invece avrebbe voluto abolire gli ostacoli fra quel letto su cui
tante volte avevano fatto l'amore, e le stelle. E come per l'effetto di
un'immensa catapulta, volare lontano. C'erano aerei che ti portavano, Sibilla
lo sapeva bene, in poche ore oltre le montagne e i mari. Sibilla avrebbe voluto
prenderne uno. Il gelo era sceso nel suo cuore.
-Tu hai visto...-
-Si. Non è questo che conta.
Tutto può essere bello o brutto a secondo dei punti di vista, delle idee con le
quali tu guardi un fatto. Ma non c'entra niente con quello che sta succedendo.
Voglio raccontarti una storia, non è bella. Il compagno Cantarini l'ho
conosciuto diciannove anni fa, a Barcellona. Mi sembra un secolo. Cantarini era
venuto in Spagna per combattere il fascismo, era più anziano di me, era stato
in galera e chiamava il penitenziario, università. Credo che fosse umbro, forse di Perugia. In Spagna ci ha lasciato
la pelle.-
-Eravate insieme?-
-Non l'hanno ammazzato i
fascisti. Sono stati i nostri. E io ero d'accordo. O per lo meno non ho fatto
niente per impedire un omicidio.-
-Perché fu ucciso?-
-Non so come, ma in galera
Cantarini aveva avuto contatti con Leonetti, Ravazzoli...I trotzkisti...Aveva
saputo quello che succedeva nel partito a Parigi e la sua esperienza in Italia
lo aveva convinto che la linea dell'Internazionale era sbagliata. Quando evase
dal confino venne a Parigi e disse ciò che riteneva giusto, fu espulso dal
partito che intanto stava per cambiare linea. Dicevamo che i socialisti erano
come e peggio dei fascisti, erano il vero nemico. Sostenevamo... ti rendi conto!
Che il fascismo avrebbe solo spianato la strada alla socialdemocrazia. Riesci a
capire, a renderti conto, per la madonna! Le stronzate che dicevamo allora?-
Sibilla era rimasta in silenzio.
-Poi il fascismo in Germania
vinse davvero e tutti si accorsero che fine aveva fatto il più grande partito
comunista del mondo dopo quello russo. I tedeschi erano stati liquidati in un
amen. E allora Stalin cambiò linea. Bisognava far l'accordo con la Francia , e noi dicemmo che
i socialisti non erano più i nemici, che bisognava stringere patti di alleanza
con loro contro il fascismo, dicemmo che occorreva l'unità nazionale contro
Hitler e Mussolini. La rivoluzione era messa in secondo piano, ora bisognava
allearsi anche con la borghesia per vincere.-
-E' quello che abbiamo fatto nel
quarantatrè...-
-E abbiamo fatto bene. Ma la Spagna , forse era un'altra
cosa. Quando i generali si ribellarono, in Spagna scoppiò la rivoluzione. Il
popolo voleva farla finita una volta per tutte con il passato. Ma negare il
fatto che in Spagna fosse in atto una rivoluzione e dire che bisognava allearsi
con la borghesia antifascista serviva alla politica estera di Stalin. Quelli
come Cantarini, quelli del Poum, il partito di Nin, gli anarchici, dicevano che
la rivoluzione spagnola sarebbe stata diversa da quella russa. Dicevano che
bisognava subito collettivizzare la terra e che in Russia era in atto una
controrivoluzione, che Stalin aveva organizzato il partito come uno strumento
del suo potere personale e che al potere c'era una nuova classe di burocrati.
Loro, Cantarini e i compagni che la pensavano come lui, sapevano dei processi,
della lotta contro i kulak, dei contadini deportati, delle migliaia di
bolscevichi assassinati. Dell'eccezionale che diventa la normalità. Dicevano
quello che abbiamo letto oggi, che ha detto Kruscev. Vincenzo non si è
inventato bugie a proposito di quel congresso. Avevo conosciuto Cantarini in un
caffè di Barcellona e quando mi parlava di queste cose, mi raccontava dei
compagni liquidati in Russia io mi dicevo: non ascoltarlo. Quando mi diceva che
in Russia bastava un semplice sospetto per spedire in Siberia compagni che la
rivoluzione l'avevano fatta, io mi ripetevo che ogni rivoluzione ha bisogno dei
suoi Robespierre e che era giusto costruire il socialismo in Russia a qualunque
costo, perché solo in Russia c'era la possibilità di farlo e che la Russia sarebbe stata un
modello valido per tutte le situazioni. Pensavo, ero convinto, che la lotta
fosse durissima, e lo era. I fascisti erano spietati. Lo vedevamo, li avevamo
davanti agli occhi. Il partito aveva il dovere di sospettare. Scandagliare sino
in fondo nel tuo animo: per distillare la purezza rivoluzionaria. Cantarini mi
disse che Gramsci non era d'accordo e per questo lo avevano isolato. Non
credevo a quello che mi raccontava Cantarini. Ero scappato dalla casa di mio
padre, dai miei privilegi, per incontrare uno che ti dice che quel paradiso
sulla terra s'è trasformato in un inferno. No, non era possibile. Poi avvenne
il disastro, i fascisti vincevano e noi arretravamo e le divisioni divennero
tali che cominciammo a spararci addosso. Cantarini lo ammazzarono i russi, lui
come tanti altri. Di alcuni fecero credere che fossero passati con i fascisti.
Erano menzogne. Io giustificai l'omicidio con la storia del terrore necessario,
lo stesso giorno in cui Cantarini scomparve i nazisti entrarono a Praga...-
-E perché questa storia non l'hai
raccontata oggi, in sezione? Perché voi che sapete, continuate a star zitti?
Voi, i dirigenti. Perché non me l'hai detto mentre piangevo quando Stalin è
morto? Ha ragione Vincenzo allora, è una grande presa in giro?-
Sibilla aveva parlato con voce
dura.
-Credi che fosse facile?-
Giovanni reagiva insofferente a
quell'accusa.
-E se anch'io fossi una
vittima?-aveva aggiunto.
-Della storia che impone il
terrore?-
Il tono di voce con cui Sibilla
lo fronteggiava non era cambiato.
-Anche. Ma oggi non conosciamo
tutto. Ci vorranno anni per sapere com'è andata veramente in Russia. All'inizio
la rivoluzione fu un grande atto di liberazione, il più grande. Poi accadde
qualcosa, ci fu una lotta durissima all'interno di quel gruppo dirigente. Ti
ripeto: non sappiamo ancora bene come andarono le cose. In Europa il fascismo
vinceva e me lo ricordo bene quello che dicevano i compagni, la pena di Clotilde
e Parenti, la sua morte solitaria, da disperato.-
Giovanni aveva fatto una pausa, a
Sibilla era parso che volesse raccogliere le idee per precisare meglio il suo
pensiero.
-E ora dobbiamo essere cauti. Lui
sbaglia. Vincenzo vede soltanto una soluzione: andare via, sbattere la porta.
E' l'individuo che si ribella in nome della propria libertà, ma a cosa serve
essere soli e aver ragione? Abbiamo vinto il fascismo anche grazie all'unità
che ci siamo imposti. Si. E i lavoratori vogliono restare nel partito, hanno
ancora fiducia nel socialismo e nella Russia. Forse per loro è come una chiesa
e le religioni non finiscono di colpo. Dobbiamo lavorare lentamente. Lo
comprendi Sibilla? Lentamente. E attorno ci accadono fatti straordinari. C'è un
mondo che finisce. Il colonialismo. Pensa solo a questo fatto: la fine del
colonialismo. Ha generato due guerre mondiali e ora sta morendo. Ovunque ci
sono rivoluzioni, e gli americani reagiscono per fermare la storia in nome dei
loro interessi. Lo vedi come inglesi e francesi hanno cercato di soffocare
Nasser? Quelli in crisi sono loro e i nostri errori possono essere corretti
perché la nostra base di partenza è giusta e i nostri principi sono i migliori
che l'uomo abbia mai pensato. Io ci credo alle cose che dico e so che ce la
possiamo fare. Sarà difficile, ma possiamo cambiare. Noi e i russi.-
Non aveva aggiunto altre parole,
stanco per lo sforzo di chiarezza appena compiuto, per se e per Sibilla. La
mano di lei aveva cercato la sua e la stringeva forte. Restarono in silenzio,
sentivano la notte con i suoi rumori lontani, strani, forse assurdi. Poi
Sibilla comprese che Giovanni s'era addormentato e allora, ad occhi aperti,
aveva sognato. Era il pianto di un figlio che li svegliava. Vedeva lei e
Giovanni che si sollevavano dal letto e prendevano questo figlio fra le braccia
ed erano obbligati a cullarlo e passeggiarlo per la stanza. Sarebbe stato
bellissimo andare al lavoro l'indomani con gli occhi stanchi per quel sonno
perso dietro a un bambino che non voleva più addormentarsi.
Il camicione bianco rendeva irreale la figura di Sibilla. Lo
strano chiarore della Luna, l'immobilità di Sibilla e il silenzio lo
commossero. Giovanni voleva chiamarla. Eppure sulle labbra saliva un nome.
Veniva da pieghe nascoste. Un suono cercava di salire in superficie e Giovanni
lo ricacciava indietro con disperazione. Ne era consapevole. Perché mentire?
C'era qualcosa di fiabesco nella figura di Sibilla, immobile davanti alla
Grande Sorella Celeste. Lo riportava indietro nel tempo, sino alla giovinezza.
Giovanni non riuscì a trattenere il suono sulle labbra.
-Agnese.-
E che strano. Non si vergognò
affatto per quello che gli veniva in
mente.
Vivere con lei tutta la mia vita e pronunciare il nome di Agnese. Dirlo
senza parlare. Mai. Tacere. Conservare questo segreto e mentire. Come con i
morti. Come con quelli sepolti chissà in quale profonda Siberia. No. Ancora
provo il desiderio di baciarle il seno, gli occhi e di ammirarla mentre cammina
per la strada.
Sibilla ruppe la sua immobilità.
La situazione incantata di dissolse, lentamente lo raggiungeva di nuovo nel
letto mentre Giovanni accendeva la lampada che gli rivelò la donna nella sua gioventù. La camicia bianca, troppo grande per lei, volò lontano e insieme
all'amore quelle parole di Sibilla, mormorate all'orecchio.
-Facciamo un figlio.-
Sibilla. Mia moglie? La donna della mia vita? Sibilla. La donna con cui
vorrei invecchiare? Sibilla. Se tu muori prima di me vorrei morire anch'io il
giorno dopo. Tu, con i nostri figli per mano.
Quando Giovanni si adagiò
nuovamente al suo fianco aveva compreso l'equivoco.
Il tacco che si spezza, la fotografia di Matteo e i garofani rossi
attaccati alla cornice, la bandiera sulla porta della cooperativa.
Sentì le dita di lei che gli
carezzavano il petto.
Sarebbe così semplice mettere tutto apposto. Lei verrebbe a Roma e una casa
per due, per tre, anche per quattro, la trovo in una settimana. Agnese. Lei non
è venuta via con me. Era la dama della fiaba e l'ho persa. Sibilla, no, tu non
meriti le mie menzogne.
La primavera romana era sommersa
dalla pioggia, pesava sulla città da una settimana e i nervi della gente erano messi alla prova. Con l'edilizia si facevano affari d'oro, ma padroni e padroncini
non volevano pagare i giorni di inattività. Per questo la CGIL aveva organizzato un
corteo che avrebbe raggiunto l'Associazione dei Costruttori. Alle motivazioni
della protesta s'era aggiunta quella per
la morte di un ragazzo caduto dall'impalcatura di un cantiere di Via
Cristoforo Colombo. Dieci metri di volo e nessuna norma di sicurezza
rispettata.
Giovanni era andato a portare la
solidarietà del partito ai lavoratori in lotta, ma il fallimento della
manifestazione era evidente e gli operai accettavano il ricatto. Meno soldi e
lavoro sicuro. Nonostante la scarsa adesione, il corteo s'era mosso sotto una
pioggia battente e aveva raggiunto il palazzo: s'era sparsa la voce che i
dirigenti dell'Associazione Costruttori se n'erano andati senza aspettare la
delegazione di operai e sindacalisti.
Giovanni si guardò intorno. Era
la situazione ideale per la provocazione. Una carica della Celere, una decina
di fermati e qualche colpo di manganello. La prossima volta ci avrebbero
pensato bene prima di bloccare il traffico di questa Roma in cui le macchine
crescevano a vista d'occhio. La pioggia continuava a cadere, gli operai si
riparavano con i cartelli, attorno al Questore c'era un movimento di gente in
borghese. Giovanni fumava e parlava con i compagni edili che conosceva: erano
l'ossatura del partito a Roma. I manifestanti pian piano si ridussero a un gruppetto sferzato dalla pioggia.
-Dio sta parte loro!-gridò
qualcuno indicando il palazzo.
Giovanni sorrise e fece qualche
passo per ripararsi; per quel giorno nessun incidente fra polizia e lavoratori,
ci pensava il Buon Dio a mantenere l'ordine. Giovanni osservò le macchine e la
gente chiusa negli abitacoli,
innervosita dalla pioggia e dai camion grigi della Celere che ingombravano la
strada inutilmente.
Si ritrovò accanto Ferrandino, un sindacalista sui trent'anni.
-Fra due anni le Olimpiadi. E'
una pacchia, pensa un po' se mollano.-disse Giovanni.
-Domani mattina distribuiremo un
volantino e abbiamo convocato un'assemblea alla Camera del Lavoro. Queste cose
bisogna organizzarle meglio. Stasera i compagni dei Castelli sono mobilitati.-
-Prendi un caffè?-disse Giovanni.
-Ti ringrazio, mi aspettano. Ciao
Riva.-
-Ciao Ferrandino.-
La manifestazione s'era ormai
sciolta e Giovanni decise che il caffè poteva berlo anche da solo.
-Dica?-
-Un caffè.-
Si chiese se non fosse troppo
tardi per un altro caffè a quell'ora del pomeriggio, cercò il pacchetto delle
sigarette e lo trovò semivuoto.
Fumo troppo.
Giovanni avvertì un brivido di
freddo, sperò di non essersi buscato l'influenza alla manifestazione.
Quattro autisti dell'Atac
seduti attorno a un tavolo e aspettavano il turno. Chiacchieravano di sport a
voce alta. Una signora invece sedeva solitaria, indossava un cappottino liso,
ornato da una pelliccetta di vera volpe e davanti a se aveva un cappuccino
consumato a metà. Guardava la televisione. Due sere
prima, Giovanni c'era capitato per caso, il proprietario del bar aveva organizzato una
visione collettiva di Campanile Sera. La signora lanciava sguardi di disapprovazione nei confronti degli autisti che coprivano con le loro
chiacchiere la voce del presentatore.
Giovanni portò alle labbra la
tazzina e avvertì il gusto del buon caffè, si volse a
guardare anche lui la televisione.
Pensò che un televisore avrebbe
fatto piacere a sua madre. Armandina era morta l'anno prima, Elena la sera
restava sola nella casa di campagna perché non si trovava una donna disposta a
rimanere anche la notte.
Questo è un problema che bisogna risolvere. Debbo scrivere a Clotilde,
l'importante è che mamma non sappia chi manda la donna.
Fuori continuava a piovere e la
giornata finiva senza alcun impegno particolare; si appoggiò al banco con la
tazzina in mano e gli venne l'idea di sedersi accanto alla signora con il
cappottino che aveva visto tempi migliori. Avrebbero guardato la televisione
insieme, come con Elena. Bevve un altro sorso di caffè e lo colpì la
familiarità dei luoghi che apparivano sullo schermo. Fece qualche passo, si
piazzò quasi al centro della sala: il giovanotto dalla voce nasale mostrava la
campagna alle sue spalle. La macchina da presa abbandonava il giornalista e si
spostava su una costruzione più moderna. Il cancello di una fabbrica all'uscita
dal turno di lavoro. Il giornalista chiedeva e le donne rispondevano più
volentieri degli uomini che si fidavano meno del personaggio sconosciuto e della cinepresa. Gli
autisti dell'Atac pagarono e se ne andarono, riuscirono ancora a coprire le
parole del giornalista. La signora del cappottino lanciò uno sguardo a Giovanni
che le rispose con un sorriso forzato. La solitudine di quella donna gli
ricordava con insistenza sua madre, sola nella casa di campagna acquistata
all'inizio del secolo.
Villa Riva va in rovina...S'era detto di venderla, ma...troppe cose. Troppe
cose.
-...abbiamo voluto sentire le
voci dell'Italia che cambia, le donne sono protagoniste di questa
trasformazione che qualcuno ha definito un vero miracolo...-
Agnese rispondeva alle domande
del giornalista: raccontava come aveva iniziato con una fabbrichetta di
materiale elettrico. I lampadari della "Lampo" erano richiesti anche
all'estero.
La sorpresa non impedì a Giovanni
di sorridere per la stranezza della cosa. Era contento di rivedere Agnese,
pensò che non era invecchiata e la sua voce gli giungeva familiare.
Gli affari vanno bene.
Poi uno stacco e l'immagine
cambiò: luce e paesaggio dicevano che la televisione invitava a trasferirsi in
un'altra regione d'Italia.
Giovanni posò sul banco le monete
per il caffè e prima di uscire dal bar lanciò ancora un'occhiata, la macchina
da presa panoramicava da un tempio della Magna Grecia sino ai campi di grano.
I contadini erano puntini nello
spazio.
Pestum. Mi piacerebbe partire per Pestum.
L'anziana signora dal cappottino
liso era sempre lì.
Si diresse verso la fermata del
tram, a quell'ora la gente affollava marciapiedi, tram e autobus. Le serrande
dei negozi si abbassavano e c'era chi entrava nei cinema. Giovanni si fermò ad
osservare il cartellone, al Plaza davano "Vera Cruz", con Gary
Cooper. Lui sul cavallo, gente col sombrero e nel cielo il volto di una donna.
Si chiese se alla solita trattoria avrebbe trovato la minestra calda, buona, e
che gli ricordava quella di Costantina a Parigi. Imboccò Corso Umberto, cercò
le sigarette e ne accese una chiedendosi come mai quella sera non c'erano
riunioni. Sentiva la pesantezza del suo corpo, l'impermeabile che aveva addosso
gli sembrava troppo stretto per lui. Giunse alla fermata del tram.
Ma che ha detto Agnese?
Le sue parole quasi non le
ricordava. Veniva giù solo qualche goccia di pioggia. Giovanni guardò la pozza
d'acqua, le gocce cadevano a intervallo regolare. Provò a contarle. Le commesse
della Rinascente stavano in gruppo, si chiamavano, ridevano e parlavano ad alta
voce in quel romanesco che a Giovanni piaceva. Una frugava nella borsetta in
cerca del portamonete. Sollevò il capo e guardò Giovanni. Il tram si fermò
rumoroso, la ragazza salì in fretta insieme alle sue compagne e Giovanni rimase
sul marciapiede. Troppo affollato quel tram. Pensò di camminare ancora un poco
per raggiungere la prossima fermata.
Ma perché stasera non ci sono riunioni?
Si lasciò cadere sul letto senza
nemmeno togliersi le scarpe. Sentiva il silenzio nel caseggiato e nei palazzi
intorno.
Quanta gente conosco nella scala? Se li incontro mi guardano in modo
strano. Sarà stato il portiere a spargere la voce che sono onorevole. Un
onorevole comunista. Non ci abitano compagni qui. I compagni li conosco, prima
o poi mi avrebbero fermato nel cortile, mi avrebbero dato del tu. Mi avrebbero
chiesto...
Ad occhi chiusi rivide Agnese in
televisione.
E se le scrivo per dirle che l'ho vista? Per dirle che mi ha fatto piacere.
Si erano scritti per qualche
tempo dopo la sua partenza per Roma alla fine del millenovecentoquarantotto,
poi le lettere s'erano diradate e la promessa di rivedersi non era stata
mantenuta da entrambi.
Viaggio nell'Italia che cambia. Bel cambiamento!
Le facce tristi degli edili, i
loro vestiti vecchi, gli autobus affollati come i carri dei deportati sulla
Cristoforo Colombo alle quattro del pomeriggio, le mani spaccate dalla calce e
senza paga perché il Dio fascista manda giù la pioggia da una settimana e
mezza.
Mia cara Agnese, per loro non cambia proprio un cazzo di niente.
Un brivido di freddo lo scosse.
Era la pioggia che gli era entrata nelle ossa.
Non mi sono mai ammalato. Se mi ammalo come faccio? E qui non conosco
nessuno. E' stato facile. Partire, attraversare le montagne per andare a
Parigi, e la guerra in Spagna. Ho ucciso. Il viso di uno che ho ammazzato in
quel villaggio, com'era? Un soldato di Franco che ora avrebbe la mia età. E ho
attraversato il mare, ho visto l'Africa e sono tornato per fare un altra guerra
che abbiamo vinto noi, mi son sentito importante quando gridavo che niente
sarebbe tornato come prima. E invece è accaduto che il popolo sovrano ha
preferito gli altri. Quella commessa che cercava il portamonete, per chi vota?
Sibilla corre e spezza il tacco della scarpa e noi gridiamo evviva la lotta del popolo greco. Ma
Stalin voleva veramente la vittoria dei compagni in Grecia? Sono rimasti senza
fucili. Dio mio!
Pensò che avrebbe potuto morire,
solo, in quel letto, nella casa in disordine. Una morte simile a quella di
Parenti che puzzava di piscio. Sentì l'antica paura provata quando s'era perso nel Borgo Vecchio.
Non c'è nessuna Clotilde da andare a trovare. No. Dio mio. No.
E lei, Clotilde, con tutti i suoi
capelli bianchi, oggi cosa avrebbe potuto dirgli? Gli avrebbe chiesto di
Stalin, e poi ancora di Stalin. E se le avesse detto che con Sibilla tutto era
finito da un anno, Clotilde l'avrebbe guardato e avrebbe parlato fredda e dura.
Hai sollevato le gonne a Sibilla. Solo questo hai fatto. E quando ti ha
detto: facciamo un figlio, te ne sei scappato lontano. Perché non l'hai sposata,
la compagna Sibilla? Vivere così, senza essere sposati non è da comunisti.
L'operaio che penserà di noi? E la donna, la contadina combattuta fra il
progresso e il prete, che dirà di te e di lei?
Clotilde non aveva mai approvato
la sua condotta, Giovanni lo sapeva, e come Clotilde anche il partito non
approvava.
Il silenzio della notte era un
macigno sul petto di Giovanni.
Sarebbe facile. Scomparire, fuggire. Togliersi gli abiti e gettarli in un
tombino, prendere un treno e poi una nave e andarsene lontano, come Sebastiano
Riva che sbarca su una terra nuova. Perché questa pena non si dissolve dal
cuore? Perché soffro ancora per averla vista dentro quella scatola maledetta?
Agnese, vengo a trovarti. Parto stanotte per venire da te.
Provò a sollevarsi dal letto, ma
ricadde come un sacco.
Io, Giovanni Riva, sono quello che ha rinunciato a tutto per far parte di
un'umanità nuova.
Quella convinzione profonda, per
un momento riuscì a placare la pena. Gli sembrò che la luce fuori aumentasse
d'intensità. E vide una figura accanto al suo letto. Sorrideva e si curvava su
di lui, gli porgeva qualcosa. Giovanni provò ad allungare la mano. Voleva
afferrare il documento falso. Un altro documento falso per andarsene.
E se don Veysendaz non si fosse fermato alla canonica? Cosa sono io? Il
risultato di un caso. Qualcuno ha scommesso su di me. Si. C'è chi ha scommesso
e se la ride.
Una voce udita quella mattina gli
ritornò nelle orecchie. Era Sabarini che diceva:
-Vieni Riva, andiamo a parlare
col Questore.-
Ma cadeva la pioggia e gli edili
se ne andavano via fradici nei loro vestiti vecchi.
Un caso.
La televisione, la serata triste,
la manifestazione mal preparata e quindi fallita. Tutto combinava.
La storia con Agnese è chiusa per sempre. Sibilla? Sono certo che mi
prenderebbe ancora. E' orgogliosa, ma se insisto...Le scriverò. Le dirò che non
ho mai smesso di pensare a lei. La vado a trovare. Urleremo, piangeremo
insieme. La sposerò e faremo un figlio. Elena Riva prima di morire avrà i
nipoti dalla figlia di un contadino.
Giovanni sorrise all'idea. Udì i
primi rumori della città che si svegliava.
Agnese in televisione e Sibilla da sposare. Che stranezza.
Nessun commento:
Posta un commento