domenica 1 febbraio 2015

Noi cambieremo il mondo. Di Stefano Viaggio. Settima parte. Secondo episodio

Il chiarore filtrava fra le imposte, Sibilla le dischiuse e guardò la Luna. Appesa nel cielo nero sembrava  pronta per consolare gli affanni del mondo. Sibilla provò a interrogarla. La mai avvertita vaghezza che si agitava in lei non si placava quella notte e non riusciva a scacciar via la tristezza lasciata dalla partenza di Vincenzo. Giovanni s'era chiuso in  silenzi lunghi, profondi e grandi, com'erano grandi i pensieri che certamente lo turbavano. Sibilla  sentiva salire sulle labbra una verità che chiedeva di esser detta.
-Non mi basta.-mormorò.
Sul finire del pomeriggio, Vicenzo era partito da un'ora, erano entrati nella sezione e s'erano trovati davanti agli occhi la scena di sempre. Attorno al tavolo sedevano i compagni e appesi al muro, ai lati delle bandiere, i ritratti, disegnati con tratto sottile a china, di Stalin, di Lenin e Antonio Gramsci. I compagni s'erano alzati in piedi per accogliere Giovanni Riva, quel dirigente che era il compagno di Sibilla. Tutti erano a conoscenza della loro storia. Il segretario, Maestri, aveva invitato Giovanni a presiedere la riunione e Giovanni aveva accettato di parlare ancora dell'Ungheria, dei polacchi, di rispondere alla domanda che tutti ormai ponevano apertamente.
-E' vero che Stalin ha ordinato i delitti di cui lo accusano nel rapporto segreto?- 
Il compagno, un uomo alto, dal viso ossuto e con un gran naso aquilino, aveva guardato Giovanni diritto negli occhi.
-Son bugie, vero Riva?- gli aveva chiesto.
Giovanni, prima di rispondere, aveva giocato per un momento con la penna a sfera posata accanto al quaderno. Poi aveva parlato con parole misurate per spiegare al compagno che la realtà oggettiva dei fatti dimostrava il contrario di quello che il nemico di classe aveva messo in bocca al compagno Kruscev. E Sibilla aveva compreso che Giovanni diceva cose che non pensava. Le sue parole, Sibilla questo lo sapeva bene, servivano a tenere unita quella gente, difendevano e proteggevano le quattro mura in cui si riunivano. Perché tutti, quando dicevano "vado in sezione" intendevano dire casa,  chiesa, fortezza,  rifugio per i momenti peggiori. E Sibilla aveva desiderato andar via.

Ma dove? A Vercelli?

A quell'ora a Vercelli c'era il passeggio degli impiegati. Insieme a mogli e figli, gli impiegati passeggiavano e sostavano davanti alle vetrine illuminate. Uno diceva alla moglie "Fra poco è Natale." E allora facevano progetti per un paio di scarpe nuove, un cappottino, i giocattoli. Sibilla avrebbe voluto fermarsi davanti alla sua vetrina preferita e contemplare un paio di scarpine lucide, con il tacco un po' alto, come quelle delle signorine eleganti che la domenica andavano al cinematografo di prima visione e poi al caffè. Prendevano i pasticcini e il tè insieme ai fidanzati.

Che stupida.

E s'era vergognata del suo desiderio.
Giovanni continuava a  discutere con i compagni. Lo ascoltavano, intervenivano, qualcuno scuoteva il capo, c'era chi pronunciava nomi di uomini lontani, scomparsi, nomi in una lingua quasi sconosciuta. Sibilla sapeva che fra quella gente Giovanni trovava la motivazione profonda della sua esistenza. Ma si pentiva d'essersi data della stupida. Perché? Sarebbe stato bello per una volta essere come le altre.

E se Giovanni mi dicesse che sono una piccola borghese. Che sto per imboccare la strada dell'abbandono dei saldi principi?

Sibilla aveva guardato, uno dopo l'altro, lentamente, fissandoli bene in viso, gli uomini che sedevano attorno al tavolo. Quei compagni erano entrati nel partito da cinque, otto, dieci anni, uno di essi, Clementi, durante la clandestinità aveva organizzato  le lotte contro i salari troppo bassi dei braccianti. Per questo era finito al confino. Altri avevano combattuto, erano stati amici di Matteo. Ma...

Non è come pensi tu. No, è diverso. Tu non lo sai, ma prova a entrare in casa loro. La tua famiglia, mi hai raccontato di tuo padre, di tua madre e di quand'eri ragazzo, forse ti sembrerà un paradiso. La semplicità e  l'ingenuità non esistono. Vieni ogni giorno alla cooperativa, ascolta le confidenze delle donne...

Sibilla ora sentiva la tenue luce della Luna scendere sino a lei.

E se Vincenzo avesse ragione? Un imbroglio. E Matteo è morto per un imbroglio? No. Matteo era giovane e tutti ascoltavano la radio e speravano che a Stalingrado...Quelli passavano vestiti di nero, cantavano canzonacce e infastidivano le donne. Stalingrado era l'avvenire. Matteo voleva la libertà. Che c'entra Stalin? E sarà poi vero che ha gridato quel nome prima di morire?

La Luna le sembrò solo una stupida palla bianca. Allora fece uno sforzo per ricordare i versi della poesia che piaceva tanto a Giovanni.
-Di Leopardi...Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea tornare...-mormorò, udì un debole rumore e temette  d'aver svegliato Giovanni. Voleva restare ancora un poco sola. Lei e la Luna.
Stupida palla nel cielo, volto di donna bianchissimo e terribile.

Per fortuna ci sei.

Si volse, Giovanni aveva solo cambiato posizione. E le venne in mente precisa e nitida tutta la storia che le aveva raccontato, solo un'ora prima.
Come il compagno dal grande naso, gli aveva chiesto:
-Sono tutte bugie, non è vero Giovanni?-
Lui per un momento aveva taciuto.
-No. Non sono tutte bugie.-
Giovanni aveva parlato senza guardarla in viso, sorrideva a chissàchi. Forse a un altro essere, lontano da Sibilla che invece avrebbe voluto abolire gli ostacoli fra quel letto su cui tante volte avevano fatto l'amore, e le stelle. E come per l'effetto di un'immensa catapulta, volare lontano. C'erano aerei che ti portavano, Sibilla lo sapeva bene, in poche ore oltre le montagne e i mari. Sibilla avrebbe voluto prenderne uno. Il gelo era sceso nel suo cuore.
-Tu hai visto...-
-Si. Non è questo che conta. Tutto può essere bello o brutto a secondo dei punti di vista, delle idee con le quali tu guardi un fatto. Ma non c'entra niente con quello che sta succedendo. Voglio raccontarti una storia, non è bella. Il compagno Cantarini l'ho conosciuto diciannove anni fa, a Barcellona. Mi sembra un secolo. Cantarini era venuto in Spagna per combattere il fascismo, era più anziano di me, era stato in galera e  chiamava il penitenziario, università. Credo che fosse umbro, forse di Perugia. In Spagna ci ha lasciato la pelle.-
-Eravate insieme?-
-Non l'hanno ammazzato i fascisti. Sono stati i nostri. E io ero d'accordo. O per lo meno non ho fatto niente per impedire un omicidio.-
-Perché fu ucciso?-
-Non so come, ma in galera Cantarini aveva avuto contatti con Leonetti, Ravazzoli...I trotzkisti...Aveva saputo quello che succedeva nel partito a Parigi e la sua esperienza in Italia lo aveva convinto che la linea dell'Internazionale era sbagliata. Quando evase dal confino venne a Parigi e disse ciò che riteneva giusto, fu espulso dal partito che intanto stava per cambiare linea. Dicevamo che i socialisti erano come e peggio dei fascisti, erano il vero nemico. Sostenevamo... ti rendi conto! Che il fascismo avrebbe solo spianato la strada alla socialdemocrazia. Riesci a capire, a renderti conto, per la madonna! Le stronzate che dicevamo allora?-
Sibilla era rimasta in silenzio.
-Poi il fascismo in Germania vinse davvero e tutti si accorsero che fine aveva fatto il più grande partito comunista del mondo dopo quello russo. I tedeschi erano stati liquidati in un amen. E allora Stalin cambiò linea. Bisognava far l'accordo con la Francia, e noi dicemmo che i socialisti non erano più i nemici, che bisognava stringere patti di alleanza con loro contro il fascismo, dicemmo che occorreva l'unità nazionale contro Hitler e Mussolini. La rivoluzione era messa in secondo piano, ora bisognava allearsi anche con la borghesia per vincere.-
-E' quello che abbiamo fatto nel quarantatrè...-
-E abbiamo fatto bene. Ma la Spagna, forse era un'altra cosa. Quando i generali si ribellarono, in Spagna scoppiò la rivoluzione. Il popolo voleva farla finita una volta per tutte con il passato. Ma negare il fatto che in Spagna fosse in atto una rivoluzione e dire che bisognava allearsi con la borghesia antifascista serviva alla politica estera di Stalin. Quelli come Cantarini, quelli del Poum, il partito di Nin, gli anarchici, dicevano che la rivoluzione spagnola sarebbe stata diversa da quella russa. Dicevano che bisognava subito collettivizzare la terra e che in Russia era in atto una controrivoluzione, che Stalin aveva organizzato il partito come uno strumento del suo potere personale e che al potere c'era una nuova classe di burocrati. Loro, Cantarini e i compagni che la pensavano come lui, sapevano dei processi, della lotta contro i kulak, dei contadini deportati, delle migliaia di bolscevichi assassinati. Dell'eccezionale che diventa la normalità. Dicevano quello che abbiamo letto oggi, che ha detto Kruscev. Vincenzo non si è inventato bugie a proposito di quel congresso. Avevo conosciuto Cantarini in un caffè di Barcellona e quando mi parlava di queste cose, mi raccontava dei compagni liquidati in Russia io mi dicevo: non ascoltarlo. Quando mi diceva che in Russia bastava un semplice sospetto per spedire in Siberia compagni che la rivoluzione l'avevano fatta, io mi ripetevo che ogni rivoluzione ha bisogno dei suoi Robespierre e che era giusto costruire il socialismo in Russia a qualunque costo, perché solo in Russia c'era la possibilità di farlo e che la Russia sarebbe stata un modello valido per tutte le situazioni. Pensavo, ero convinto, che la lotta fosse durissima, e lo era. I fascisti erano spietati. Lo vedevamo, li avevamo davanti agli occhi. Il partito aveva il dovere di sospettare. Scandagliare sino in fondo nel tuo animo: per distillare la purezza rivoluzionaria. Cantarini mi disse che Gramsci non era d'accordo e per questo lo avevano isolato. Non credevo a quello che mi raccontava Cantarini. Ero scappato dalla casa di mio padre, dai miei privilegi, per incontrare uno che ti dice che quel paradiso sulla terra s'è trasformato in un inferno. No, non era possibile. Poi avvenne il disastro, i fascisti vincevano e noi arretravamo e le divisioni divennero tali che cominciammo a spararci addosso. Cantarini lo ammazzarono i russi, lui come tanti altri. Di alcuni fecero credere che fossero passati con i fascisti. Erano menzogne. Io giustificai l'omicidio con la storia del terrore necessario, lo stesso giorno in cui Cantarini scomparve i nazisti entrarono a Praga...-
-E perché questa storia non l'hai raccontata oggi, in sezione? Perché voi che sapete, continuate a star zitti? Voi, i dirigenti. Perché non me l'hai detto mentre piangevo quando Stalin è morto? Ha ragione Vincenzo allora, è una grande presa in giro?-
Sibilla aveva parlato con voce dura.
-Credi che fosse facile?-
Giovanni reagiva insofferente a quell'accusa.
-E se anch'io fossi una vittima?-aveva aggiunto.
-Della storia che impone il terrore?-
Il tono di voce con cui Sibilla lo fronteggiava non era cambiato.
-Anche. Ma oggi non conosciamo tutto. Ci vorranno anni per sapere com'è andata veramente in Russia. All'inizio la rivoluzione fu un grande atto di liberazione, il più grande. Poi accadde qualcosa, ci fu una lotta durissima all'interno di quel gruppo dirigente. Ti ripeto: non sappiamo ancora bene come andarono le cose. In Europa il fascismo vinceva e me lo ricordo bene quello che dicevano i compagni, la pena di Clotilde e Parenti, la sua morte solitaria, da disperato.-
Giovanni aveva fatto una pausa, a Sibilla era parso che volesse raccogliere le idee per precisare meglio il suo pensiero.
-E ora dobbiamo essere cauti. Lui sbaglia. Vincenzo vede soltanto una soluzione: andare via, sbattere la porta. E' l'individuo che si ribella in nome della propria libertà, ma a cosa serve essere soli e aver ragione? Abbiamo vinto il fascismo anche grazie all'unità che ci siamo imposti. Si. E i lavoratori vogliono restare nel partito, hanno ancora fiducia nel socialismo e nella Russia. Forse per loro è come una chiesa e le religioni non finiscono di colpo. Dobbiamo lavorare lentamente. Lo comprendi Sibilla? Lentamente. E attorno ci accadono fatti straordinari. C'è un mondo che finisce. Il colonialismo. Pensa solo a questo fatto: la fine del colonialismo. Ha generato due guerre mondiali e ora sta morendo. Ovunque ci sono rivoluzioni, e gli americani reagiscono per fermare la storia in nome dei loro interessi. Lo vedi come inglesi e francesi hanno cercato di soffocare Nasser? Quelli in crisi sono loro e i nostri errori possono essere corretti perché la nostra base di partenza è giusta e i nostri principi sono i migliori che l'uomo abbia mai pensato. Io ci credo alle cose che dico e so che ce la possiamo fare. Sarà difficile, ma possiamo cambiare. Noi e i russi.-    
Non aveva aggiunto altre parole, stanco per lo sforzo di chiarezza appena compiuto, per se e per Sibilla. La mano di lei aveva cercato la sua e la stringeva forte. Restarono in silenzio, sentivano la notte con i suoi rumori lontani, strani, forse assurdi. Poi Sibilla comprese che Giovanni s'era addormentato e allora, ad occhi aperti, aveva sognato. Era il pianto di un figlio che li svegliava. Vedeva lei e Giovanni che si sollevavano dal letto e prendevano questo figlio fra le braccia ed erano obbligati a cullarlo e passeggiarlo per la stanza. Sarebbe stato bellissimo andare al lavoro l'indomani con gli occhi stanchi per quel sonno perso dietro a un bambino che non voleva più addormentarsi.               
                             
Il camicione bianco  rendeva irreale la figura di Sibilla. Lo strano chiarore della Luna, l'immobilità di Sibilla e il silenzio lo commossero. Giovanni voleva chiamarla. Eppure sulle labbra saliva un nome. Veniva da pieghe nascoste. Un suono cercava di salire in superficie e Giovanni lo ricacciava indietro con disperazione. Ne era consapevole. Perché mentire? C'era qualcosa di fiabesco nella figura di Sibilla, immobile davanti alla Grande Sorella Celeste. Lo riportava indietro nel tempo, sino alla giovinezza. Giovanni non riuscì a trattenere il suono sulle labbra.
-Agnese.-
E che strano. Non si vergognò affatto per  quello che gli veniva in mente.

Vivere con lei tutta la mia vita e pronunciare il nome di Agnese. Dirlo senza parlare. Mai. Tacere. Conservare questo segreto e mentire. Come con i morti. Come con quelli sepolti chissà in quale profonda Siberia. No. Ancora provo il desiderio di baciarle il seno, gli occhi e di ammirarla mentre cammina per la strada.

Sibilla ruppe la sua immobilità. La situazione incantata di dissolse, lentamente lo raggiungeva di nuovo nel letto mentre Giovanni accendeva la lampada che gli rivelò la donna nella sua gioventù. La camicia bianca, troppo grande per lei, volò lontano e insieme all'amore quelle parole di Sibilla, mormorate all'orecchio.
-Facciamo un figlio.-

Sibilla. Mia moglie? La donna della mia vita? Sibilla. La donna con cui vorrei invecchiare? Sibilla. Se tu muori prima di me vorrei morire anch'io il giorno dopo. Tu, con i nostri figli per mano.

Quando Giovanni si adagiò nuovamente al suo fianco aveva compreso l'equivoco.

Il tacco che si spezza, la fotografia di Matteo e i garofani rossi attaccati alla cornice, la bandiera sulla porta della cooperativa.

Sentì le dita di lei che gli carezzavano il petto.

Sarebbe così semplice mettere tutto apposto. Lei verrebbe a Roma e una casa per due, per tre, anche per quattro, la trovo in una settimana. Agnese. Lei non è venuta via con me. Era la dama della fiaba e l'ho persa. Sibilla, no, tu non meriti le mie menzogne.
                            
La primavera romana era sommersa dalla pioggia, pesava sulla città da una settimana e i nervi della gente erano messi alla prova. Con l'edilizia si facevano affari d'oro, ma padroni e padroncini non volevano pagare i giorni di inattività. Per questo la CGIL aveva organizzato un corteo che avrebbe raggiunto l'Associazione dei Costruttori. Alle motivazioni della protesta s'era aggiunta quella per  la morte di un ragazzo caduto dall'impalcatura di un cantiere di Via Cristoforo Colombo. Dieci metri di volo e nessuna norma di sicurezza rispettata.
Giovanni era andato a portare la solidarietà del partito ai lavoratori in lotta, ma il fallimento della manifestazione era evidente e gli operai accettavano il ricatto. Meno soldi e lavoro sicuro. Nonostante la scarsa adesione, il corteo s'era mosso sotto una pioggia battente e aveva raggiunto il palazzo: s'era sparsa la voce che i dirigenti dell'Associazione Costruttori se n'erano andati senza aspettare la delegazione di operai e sindacalisti.
Giovanni si guardò intorno. Era la situazione ideale per la provocazione. Una carica della Celere, una decina di fermati e qualche colpo di manganello. La prossima volta ci avrebbero pensato bene prima di bloccare il traffico di questa Roma in cui le macchine crescevano a vista d'occhio. La pioggia continuava a cadere, gli operai si riparavano con i cartelli, attorno al Questore c'era un movimento di gente in borghese. Giovanni fumava e parlava con i compagni edili che conosceva: erano l'ossatura del partito a Roma. I manifestanti pian piano si ridussero  a un gruppetto sferzato dalla pioggia.
-Dio sta parte loro!-gridò qualcuno indicando il palazzo.
Giovanni sorrise e fece qualche passo per ripararsi; per quel giorno nessun incidente fra polizia e lavoratori, ci pensava il Buon Dio a mantenere l'ordine. Giovanni osservò le macchine e la gente  chiusa negli abitacoli, innervosita dalla pioggia e dai camion grigi della Celere che ingombravano la strada inutilmente.
Si ritrovò accanto  Ferrandino, un sindacalista sui trent'anni.
-Fra due anni le Olimpiadi. E' una pacchia, pensa un po' se mollano.-disse Giovanni.
-Domani mattina distribuiremo un volantino e abbiamo convocato un'assemblea alla Camera del Lavoro. Queste cose bisogna organizzarle meglio. Stasera i compagni dei Castelli sono mobilitati.-
-Prendi un caffè?-disse Giovanni.
-Ti ringrazio, mi aspettano. Ciao Riva.-
-Ciao Ferrandino.-
La manifestazione s'era ormai sciolta e Giovanni decise che il caffè poteva berlo anche da solo.
     
-Dica?-
-Un caffè.-
Si chiese se non fosse troppo tardi per un altro caffè a quell'ora del pomeriggio, cercò il pacchetto delle sigarette e lo trovò semivuoto.

Fumo troppo.

Giovanni avvertì un brivido di freddo, sperò di non essersi buscato l'influenza alla manifestazione.
Quattro autisti dell'Atac seduti attorno a un tavolo e aspettavano il turno. Chiacchieravano di sport a voce alta. Una signora invece sedeva solitaria, indossava un cappottino liso, ornato da una pelliccetta di vera volpe e davanti a se aveva un cappuccino consumato a metà. Guardava la televisione. Due sere prima, Giovanni c'era capitato per caso, il proprietario del bar aveva organizzato una visione collettiva di Campanile Sera. La signora lanciava sguardi di disapprovazione nei confronti degli autisti che coprivano con le loro chiacchiere la voce del presentatore.
Giovanni portò alle labbra la tazzina e avvertì il gusto del buon caffè, si volse a guardare anche lui la televisione.
Pensò che un televisore avrebbe fatto piacere a sua madre. Armandina era morta l'anno prima, Elena la sera restava sola nella casa di campagna perché non si trovava una donna disposta a rimanere anche la notte.

Questo è un problema che bisogna risolvere. Debbo scrivere a Clotilde, l'importante è che mamma non sappia chi manda la donna.

Fuori continuava a piovere e la giornata finiva senza alcun impegno particolare; si appoggiò al banco con la tazzina in mano e gli venne l'idea di sedersi accanto alla signora con il cappottino che aveva visto tempi migliori. Avrebbero guardato la televisione insieme, come con Elena. Bevve un altro sorso di caffè e lo colpì la familiarità dei luoghi che apparivano sullo schermo. Fece qualche passo, si piazzò quasi al centro della sala: il giovanotto dalla voce nasale mostrava la campagna alle sue spalle. La macchina da presa abbandonava il giornalista e si spostava su una costruzione più moderna. Il cancello di una fabbrica all'uscita dal turno di lavoro. Il giornalista chiedeva e le donne rispondevano più volentieri degli uomini che si fidavano meno del personaggio sconosciuto e della cinepresa. Gli autisti dell'Atac pagarono e se ne andarono, riuscirono ancora a coprire le parole del giornalista. La signora del cappottino lanciò uno sguardo a Giovanni che le rispose con un sorriso forzato. La solitudine di quella donna gli ricordava con insistenza sua madre, sola nella casa di campagna acquistata all'inizio del secolo.

Villa Riva va in rovina...S'era detto di venderla, ma...troppe cose. Troppe cose.

-...abbiamo voluto sentire le voci dell'Italia che cambia, le donne sono protagoniste di questa trasformazione che qualcuno ha definito un vero miracolo...-
Agnese rispondeva alle domande del giornalista: raccontava come aveva iniziato con una fabbrichetta di materiale elettrico. I lampadari della "Lampo" erano richiesti anche all'estero.
La sorpresa non impedì a Giovanni di sorridere per la stranezza della cosa. Era contento di rivedere Agnese, pensò che non era invecchiata e la sua voce gli giungeva familiare.

Gli affari vanno bene.

Poi uno stacco e l'immagine cambiò: luce e paesaggio dicevano che la televisione invitava a trasferirsi in un'altra regione d'Italia.
Giovanni posò sul banco le monete per il caffè e prima di uscire dal bar lanciò ancora un'occhiata, la macchina da presa panoramicava da un tempio della Magna Grecia sino ai campi di grano.
I contadini erano puntini nello spazio.

Pestum. Mi piacerebbe partire per Pestum.

L'anziana signora dal cappottino liso era sempre lì.

Si diresse verso la fermata del tram, a quell'ora la gente affollava marciapiedi, tram e autobus. Le serrande dei negozi si abbassavano e c'era chi entrava nei cinema. Giovanni si fermò ad osservare il cartellone, al Plaza davano "Vera Cruz", con Gary Cooper. Lui sul cavallo, gente col sombrero e nel cielo il volto di una donna. Si chiese se alla solita trattoria avrebbe trovato la minestra calda, buona, e che gli ricordava quella di Costantina a Parigi. Imboccò Corso Umberto, cercò le sigarette e ne accese una chiedendosi come mai quella sera non c'erano riunioni. Sentiva la pesantezza del suo corpo, l'impermeabile che aveva addosso gli sembrava troppo stretto per lui. Giunse alla fermata del tram.

Ma che ha detto Agnese?

Le sue parole quasi non le ricordava. Veniva giù solo qualche goccia di pioggia. Giovanni guardò la pozza d'acqua, le gocce cadevano a intervallo regolare. Provò a contarle. Le commesse della Rinascente stavano in gruppo, si chiamavano, ridevano e parlavano ad alta voce in quel romanesco che a Giovanni piaceva. Una frugava nella borsetta in cerca del portamonete. Sollevò il capo e guardò Giovanni. Il tram si fermò rumoroso, la ragazza salì in fretta insieme alle sue compagne e Giovanni rimase sul marciapiede. Troppo affollato quel tram. Pensò di camminare ancora un poco per raggiungere la prossima fermata.

Ma perché stasera non ci sono riunioni?
                            
Si lasciò cadere sul letto senza nemmeno togliersi le scarpe. Sentiva il silenzio nel caseggiato e nei palazzi intorno.

Quanta gente conosco nella scala? Se li incontro mi guardano in modo strano. Sarà stato il portiere a spargere la voce che sono onorevole. Un onorevole comunista. Non ci abitano compagni qui. I compagni li conosco, prima o poi mi avrebbero fermato nel cortile, mi avrebbero dato del tu. Mi avrebbero chiesto...

Ad occhi chiusi rivide Agnese in televisione.

E se le scrivo per dirle che l'ho vista? Per dirle  che mi ha fatto piacere.

Si erano scritti per qualche tempo dopo la sua partenza per Roma alla fine del millenovecentoquarantotto, poi le lettere s'erano diradate e la promessa di rivedersi non era stata mantenuta da entrambi.

Viaggio nell'Italia che cambia. Bel cambiamento!

Le facce tristi degli edili, i loro vestiti vecchi, gli autobus affollati come i carri dei deportati sulla Cristoforo Colombo alle quattro del pomeriggio, le mani spaccate dalla calce e senza paga perché il Dio fascista manda giù la pioggia da una settimana e mezza.

Mia cara Agnese, per loro non cambia proprio un cazzo di niente.

Un brivido di freddo lo scosse. Era la pioggia che gli era entrata nelle ossa.

Non mi sono mai ammalato. Se mi ammalo come faccio? E qui non conosco nessuno. E' stato facile. Partire, attraversare le montagne per andare a Parigi, e la guerra in Spagna. Ho ucciso. Il viso di uno che ho ammazzato in quel villaggio, com'era? Un soldato di Franco che ora avrebbe la mia età. E ho attraversato il mare, ho visto l'Africa e sono tornato per fare un altra guerra che abbiamo vinto noi, mi son sentito importante quando gridavo che niente sarebbe tornato come prima. E invece è accaduto che il popolo sovrano ha preferito gli altri. Quella commessa che cercava il portamonete, per chi vota? Sibilla corre e spezza il tacco della scarpa e noi  gridiamo evviva la lotta del popolo greco. Ma Stalin voleva veramente la vittoria dei compagni in Grecia? Sono rimasti senza fucili. Dio mio!

Pensò che avrebbe potuto morire, solo, in quel letto, nella casa in disordine. Una morte simile a quella di Parenti che puzzava di piscio. Sentì l'antica paura  provata quando s'era perso nel Borgo Vecchio.

Non c'è nessuna Clotilde da andare a trovare. No. Dio mio. No.

E lei, Clotilde, con tutti i suoi capelli bianchi, oggi cosa avrebbe potuto dirgli? Gli avrebbe chiesto di Stalin, e poi ancora di Stalin. E se le avesse detto che con Sibilla tutto era finito da un anno, Clotilde l'avrebbe guardato e avrebbe parlato fredda e dura.

Hai sollevato le gonne a Sibilla. Solo questo hai fatto. E quando ti ha detto: facciamo un figlio, te ne sei scappato lontano. Perché non l'hai sposata, la compagna Sibilla? Vivere così, senza essere sposati non è da comunisti. L'operaio che penserà di noi? E la donna, la contadina combattuta fra il progresso e il prete, che dirà di te e di lei?

Clotilde non aveva mai approvato la sua condotta, Giovanni lo sapeva, e come Clotilde anche il partito non approvava.
Il silenzio della notte era un macigno sul petto di Giovanni.

Sarebbe facile. Scomparire, fuggire. Togliersi gli abiti e gettarli in un tombino, prendere un treno e poi una nave e andarsene lontano, come Sebastiano Riva che sbarca su una terra nuova. Perché questa pena non si dissolve dal cuore? Perché soffro ancora per averla vista dentro quella scatola maledetta? Agnese, vengo a trovarti. Parto stanotte per venire da te.

Provò a sollevarsi dal letto, ma ricadde come un sacco.

Io, Giovanni Riva, sono quello che ha rinunciato a tutto per far parte di un'umanità nuova.

Quella convinzione profonda, per un momento riuscì a placare la pena. Gli sembrò che la luce fuori aumentasse d'intensità. E vide una figura accanto al suo letto. Sorrideva e si curvava su di lui, gli porgeva qualcosa. Giovanni provò ad allungare la mano. Voleva afferrare il documento falso. Un altro documento falso per andarsene.

E se don Veysendaz non si fosse fermato alla canonica? Cosa sono io? Il risultato di un caso. Qualcuno ha scommesso su di me. Si. C'è chi ha scommesso e se la ride.

Una voce udita quella mattina gli ritornò nelle orecchie. Era Sabarini che diceva:
-Vieni Riva, andiamo a parlare col Questore.-
Ma cadeva la pioggia e gli edili se ne andavano via fradici nei loro vestiti vecchi.

Un caso.

La televisione, la serata triste, la manifestazione mal preparata e quindi fallita. Tutto combinava.

La storia con Agnese è chiusa per sempre. Sibilla? Sono certo che mi prenderebbe ancora. E' orgogliosa, ma se insisto...Le scriverò. Le dirò che non ho mai smesso di pensare a lei. La vado a trovare. Urleremo, piangeremo insieme. La sposerò e faremo un figlio. Elena Riva prima di morire avrà i nipoti dalla figlia di un contadino.

Giovanni sorrise all'idea. Udì i primi rumori della città che si svegliava.


Agnese in televisione e Sibilla da sposare. Che stranezza.

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