domenica 1 febbraio 2015

Noi cambieremo il mondo. Di Stefano Viaggio. Settima parte. Terzo episodio

-Il momento è difficile.-
Giovanni quella frase l'aveva sentita almeno mille volte.
-Si, è difficile. Ma abbiamo davanti un situazione nuova.-
Il compagno aveva intuito l’idea che passava per la testa di Giovanni Riva.
-Occorre dimostrare a tutti che possiamo fermare il declino. Ci danno per spacciati. E tu lo sai meglio di me: questo vale anche per la nostra autonomia. Se diventiamo deboli aumenterà la dipendenza. Non è solo una questione di forza politica, elettorale, di classe. Chiamala come ti pare. Anche di soldi...Quello che è stato è stato. Tutti fratelli, ma...-
Il compagno allargò le braccia, Giovanni rispose con un segno di assenso. Lui era perfettamente d'accordo con il pensiero del compagno. Volle dirlo.
-Ne sono convinto da tempo.-
-Lo so, Riva.-
Il compagno lo guardò negli occhi.
-Dovremo mobilitare nuove energie. In Italia sono in atto cambiamenti e...-
-Se rimaniamo indietro resteremo fuori da qualunque gioco.-anticipò Giovanni.
-Il capitalismo italiano è davanti a un passaggio obbligato, e stretto. Il paese diventa, come dire? Moderno. E allora, o uno scontro frontale con la classe operaia oppure una manovra più vasta, di respiro più ampio...-
-Potrebbe scegliere entrambe le soluzioni.-
-E' appunto questo che mi preoccupa.-
Il compagno accese una sigaretta e porse l'accendino anche a Giovanni che accese la sua. L'ufficio per un momento si riempì di fumo.
-I socialisti sono pronti al grande abbraccio. Si rivelerà mortale. Sono troppo deboli. Sappiamo che i più forti a sinistra siamo noi e dobbiamo dimostrare di esserlo ancora, ma intanto c’è il futuro. Ci sono forze che attendono segnali, e intendo ceti produttivi nuovi che emergono. Si tratta di piccoli pezzi dello stato e anche del capitale. Se l'area dell'intervento pubblico si estende, noi che facciamo? Mi rendo conto che si tratta di un lavoro lungo e complesso, ma dobbiamo farlo tutti insieme. Il gruppo dirigente deve essere unito. Per questo ti ho chiesto di venire prima delle riunione. Dobbiamo lavorare senza perdere di vista gli interessi della classe operaia.-
-Ma i socialisti non hanno messo in conto una possibile sconfitta che li distruggerebbe? Collaborare con la DC senza risultati tangibili li distruggerebbe.-
-No. Ci hanno pensato, ma sono decisi a percorrere la strada.-
-A noi possono venire vantaggi.-
-E' vero, ma sarebbe miope pensare di crescere sulle disgrazie, sugli errori altrui. Lo ripeto: abbiamo nuove responsabilità, e non sono cose di poco conto. Le fabbriche del nord si stanno riempiendo di operai meridionali che non hanno la minima idea di cosa sia la coscienza di classe. E tu, le difficoltà del sindacato le conosci meglio di me. Per questo dobbiamo andare oltre i risultati delle ultime amministrative, dobbiamo migliorare le nostre posizioni al nord. Dobbiamo dimostrare in Italia e fuori che il vento di Budapest ci è passato sulla testa senza portarci via il cappello.-

Il cappello e il vento...Bella la conclusione.

Giovanni osservò il compagno. Lui sarebbe entrato nella storia. Aveva capito da tempo. Da molti anni lavorava al progetto di cui ora Giovanni cominciava a veder delineati i contorni. E gli venne una domanda sulle labbra...Ma rinunciò a farla. Il compagno, nonostante la confidenza e il lavoro comune, ancora lo intimoriva. Giovanni intuì il segreto dolore dell'uomo che sedeva e fumava davanti a lui. E quando uscì dall'ufficio e si trovò a percorrere il lungo e deserto corridoio del grande palazzo, rifletteva sul concetto di tempo e di luogo. Per tutto c'era un tempo e un luogo in cui scegliere l'opportunità di dire e fare. E forse con il dolore di tacere e dover aspettare

Opportuno. Come e quando, dove e perché occorre compiere una scelta opportuna e che fa muovere un passo in avanti? Io cos'avrei fatto al suo posto? Quale intimo convincimento mi avrebbe portato a condividere o meno quei fatti su cui si è a lungo taciuto. Opportuno. Opportuno...Ecco, in questo momento io scendo gli scalini e porto in basso il piede, è normale che io non cada, che non frapponga una gamba sull'altra. Mia madre mi ha insegnato sin da bambino a camminare, a scendere e salire le scale. I popoli, le classi sono come bambini che vanno spiati per cogliere il momento più opportuno per dire, fare...

Giovanni fu all'aperto, sul marciapiede, in mezzo alle motorette, alle macchine e ai tram. Si volse a destra e vide un pezzo di storia fatto di marmo bianco. I romani chiamavano "macchina da scrivere" quel monumento. Sapeva che a pochi metri, nemmeno cento, c'era il balcone. Si ricordò dell'altoparlante e della voce stentorea e metallica e di un ragazzo che si guardava intorno. Unico in quella folla plaudente che serbasse un segreto, terribile a quel tempo.
                              
L'avevano candidato nella sua città perché sapevano che lassù gli volevano bene.
Giovanni uscì nel corridoio a fumare, tirò giù il finestrino e riconobbe i casolari noti sin dall'infanzia.
Doveva fermarsi per un mese, sino alle elezioni.
Il compagno Torchi gli aveva detto:
-C'è bisogno di vecchi antifascisti. Persone che sappiano parlare ai lavoratori, ma anche gente come te che può aver rapporti con chi sta fuori dal solito giro. Tecnici, professori.-
Torchi gli aveva messo sotto gli occhi un bigliettino
-E' l'indirizzo di una libreria. Il proprietario è un intellettuale. Non è iscritto. Ogni venerdì sera s'incontra con altra gente, persone che lavorano in fabbrica, impiegati. Discutono. Anche di noi. Così ci hanno riferito i compagni. Sembra che non si tratti del solito salotto letterario di provincia. Vai e vedi cosa ne può venir fuori.-
Giovanni prima di partire aveva telefonato in Federazione.
-Ci vanno anche i cattolici, quelli del movimento di Capitini. Sono insegnanti. Li conosciamo perché tre mesi fa abbiamo organizzato un'incontro sulla bomba atomica e sono venuti.-aveva detto Marco Rapetti.-Vuoi che ti procuri un contatto con loro?-
-Ne parliamo quando arrivo.-aveva risposto Giovanni.
L'orologio gli veniva incontro sul binario, il treno arrivava in perfetto orario.

Un mese a casa. E' da quando me ne sono andato a Roma che non  succede.

Prima di partire aveva visto Vincenzo. Ora lavorava al Mondo. Con Vincenzo avevano parlato anche di Sibilla. S'era sposata e viveva a Vercelli.
Un compagno che conosceva Giovanni, aveva telefonato da Vercelli e con la scusa delle candidature gli aveva detto:
-Volevo dirti anche un'altra cosa, è bene che tu lo sappia. La Sibilla s'è sposata due giorni fa...E' un compagno serio, viene da Pesaro.-
Aveva provato a immaginare che tipo d'uomo fosse il compagno di Pesaro.
-Sibilla è una brava compagna.-aveva risposto Giovanni.-Cercate di valorizzarla, è un quadro femminile che può fare molto.-
-Certo Riva.-aveva detto il compagno di Vercelli.

Grazie Sibilla. Ti auguro di essere felice con il tuo compagno, te lo auguro anche se non ci credo. Era bello quando restavamo soli e non c'era nessuno a chiedere, a dire, a voler fare questo e quello.

Il treno stava per fermarsi, Giovanni gettò la sigaretta fra i binari. Poi entrò nello scompartimento e afferrò la valigia, dopo qualche minuto camminava veloce verso l'uscita della stazione. L'edicola era la stessa, guardò in direzione della grande vetrata, ma vide solo lo spazio semideserto di una stazione di provincia che si riempiva e si svuotava in pochi minuti dopo il passaggio di un treno diretto a una città più grande. Giovanni si sentiva agile e giovane come non gli accadeva da tempo. Uscì dalla stazione e si diresse verso il centro della città.
                              
Era il vento che annuncia la primavera. Quello che porta bene. Andavano tutti in bicicletta quella domenica, a vendere l'Unità e distribuire il materiale di propaganda anche nei villaggi sulle colline. Erano anni che Giovanni non pedalava contro il vento nei viottoli e provava ora piacere nel ricordare la direzione giusta per tagliar più corto. Era lui che guidava gli altri,  i ragazzi della FGCI, giovani operai, maschi e femmine che s'erano mobilitati  per una domenica di diffusione straordinaria lanciata dal partito in tutta Italia. Erano venuti anche due studenti del Liceo cittadino.
-Un fatto eccezionale!-aveva detto Marco, il segretario della Federazione.
Giovanni udì una voce.
-Quì. Voltiamo a destra.-
-Mai a destra!-rispose un urlo dal fondo.
Era una stradina in salita, pedalando si sudava. Giunsero a un borgo di una decina di case costruite una addosso all'altra. Si sparsero fra le stradine. La gente li accoglieva bene. Nessuno rifiutava di prendere quel che c'era da leggere e acquistavano l'Unità. Giovanni ricordava che i villaggi di quella zona erano stati conquistati al partito sin dal quarantacinque e sempre i comunisti erano stati i primi alle elezioni. Un grosso casolare ai margini borgo non diede segni di vita. Giovanni si accorse che qualcuno sbirciava dalla finestra.
-Chi ci abita?-chiese a una donna anziana  che, vicina alla fontana, con i panni raccolti in una cesta enorme osservava quell’insolito via vai domenicale nel villaggio.
-Quelli sono terroni.-rispose la donna.-Vengono dalla bassa Italia, sono sporchi e i bambini fanno chiasso.-
Giovanni guardò la biancheria stesa ad asciugare.
La donna posò in terra la cesta, aveva voglia di parlare.
-Sono fratelli. Prima è arrivato il più grande, con la moglie e tre figli, poi gli altri. Sono quattro famiglie e vivono tutti insieme. Non so mica come si può? Perché non si fa una legge per tenere i terroni a casa loro?-
Giovanni non rispose. Il marito della donna aveva comprato l'Unità e s'era fermato a parlare con Marco: era iscritto al PCI dal quarantsei.
Giovanni s'avvicinò alla casa, chiese a voce alta se volevano comprare il giornale. Dietro una finestra ci fu il rapido movimento di un'ombra che spariva, tutto rimase muto. Giovanni tornò sui suoi passi, guardò i compagni che nel frattempo avevano terminato il giro, lesse nei loro occhi un "lascia perdere, non perdiamo altro tempo". S'avviò anche lui per una stradina stretta che terminava nello spiazzo di terra battuta dove c'era una fontana di pietra e certamente antica di duecento anni. Seduto su una panca c'era Leon, un vecchio militante, iscritto dal venticinque. Fumava la pipa e prendeva il sole.
-Guarda chi c'è!-esclamò Marco, indicando Leon a Giovanni.
-Abbiamo un'idea di quanti meridionali sono venuti a vivere da noi?-
Quella domanda era importante, Marco si accorse che Giovanni non aveva voglia di far battute. Ci pensò un momento prima di rispondere. No, non aveva un'idea precisa di quanti meridionali fossero giunti in città negli ultimi mesi. Ma era certo che fossero in molti.
-E' un errore. Abbiamo iscritti fra i meridionali?-
I compagni prestarono attenzione, Giovanni si rendeva conto del disagio di Marco.
-Ci sono dei compagni.-
-Dei compagni... E' un po' vago. Qui non basta consolidare i voti nel nostro elettorato, bisogna estenderlo. Occorre organizzare una riunione fra i nostri iscritti meridionali e parlare dell'emigrazione. Telefono io a Roma e chiedo che mandino su un compagno conosciuto, uno di loro, che parla come loro. Dobbiamo occuparci di questa gente, sapere come vive, che lavoro fa, se ci sono iscritti al sindacato, e a quale sindacato. Non sarà mica una vittoria se quelle finestre non si sono aperte? Se non hanno comprato il giornale? Per me è una sconfitta. Questi sono lavoratori, e magari più sfruttati di chi è nato qui e ci vive da sempre. Nel sud c'è ancora il Medio Evo, la gente vive nelle grotte a Matera. Non lo sapete?-
Giovanni si rendeva conto che le sue parole gelavano il clima da scampagnata domenicale. Non poteva farci niente se guastava la festa, anche lui aveva sperimentato cosa significa ricevere una critica da un compagno dirigente. Gli avevano insegnato a non eludere un problema difficile. 
-Certo. Hai ragione...-disse Marco, fra se elencava i nomi dei compagni meridionali che frequentavano il partito.
Leon, il vecchio iscritto dal venticinque, aveva lasciato la sua panca e il sole, s'era avvicinato e ascoltava. Approvava quello che aveva detto il compagno Riva. Ma come sempre aveva voglia di scherzare. Cercava una frase per rompere il gelo. La trovò.
-Quando arriveranno i russi morirò contento.-disse, si rivolse ai ragazzi della FGCI-La conoscete questa...Quel che s'avanza è uno strano soldato...vien dall'oriente e non monta il destrier...-
I ragazzi gli andarono dietro, intonarono anche loro la canzone che Giovanni ricordava di aver cantato attorno al fuoco, sotto le stelle. Nelle notti di attesa. La cantarono tutta la canzone che finiva con il nome di Lenin. Giovanni s'accorse che Leon ci aveva messo anche quello di Stalin. Poi raggiunsero le biciclette lasciate all'inizio del borgo, Giovanni parlò ancora con Marco dei meridionali. Voleva convincerlo che era importante, e nello stesso tempo gli altri, i più giovani, non dovevano pensare che Marco fosse un cattivo dirigente. Leon li accompagnò e si fece lasciare una decina di giornali, li avrebbe portati nel pomeriggio alla gente dei casolari più in alto, lassù c'erano compagni che conosceva.  Eppoi possedeva un campetto sulla strada della montagna, e quel giorno aveva deciso di andare, ora che la primavera era arrivata sul serio.
      
Quella domenica di diffusione straordinaria dell'Unità, Giovanni aveva promesso a sua madre che avrebbero pranzato e trascorso il pomeriggio insieme. Elena era un po' curva per l'età, le piaceva leggere tutti i libri che non aveva letto da ragazza e Giovanni quando andava a trovarla portava sempre almeno due o tre romanzi. In quei giorni Elena leggeva "Menzogna e sortilegio" di Elsa Morante.
Giovanni contava di passare una parte del pomeriggio con sua madre. La sera sarebbe andato alla Bocciofila: si premiavano i vincitori e la gara l'aveva organizzata un gruppo di vecchi operai dell'acciaieria. Sarebbero venute le famiglie con madri, padri, sorelle e fidanzate dei premiati. E anche quelli erano voti. In casa di Elena era comparsa Nanda, una donna sui cinquant'anni rimasta vedova. Giovanni ne era sicuro: con l'arrivo di Nanda c'entrava Clotilde. Nell'ultima lettera le aveva chiesto il  favore di trovare una donna per sua madre, disposta a fermarsi anche la notte.
Mentre pedalava accanto a Marco, Giovanni non riusciva a togliersi dalla testa la casa dei meridionali.

Non è una casa grande, ci staranno almeno in quindici. Hanno ricreato quassù i loro modi di fare, parlare, vestire, stare a tavola, parlarsi. Uomini e donne che appartengono a un mondo lontano da queste valli. Che pensa questa gente?

Si volse a guardare verso le montagne. Il Monte Rosa gli ricordò i suoi primi ospiti di Parigi, quei parenti di Don Veysendaz che lo volevano al più presto fuori da casa loro.
Gli venne in mente un articolo di Vincenzo su un film che Luchino Visconti stava girando in quelle settimane. Ci lavoravano Renato Salvatori, Jeanne Moreau, Alain Delon. Quel film, secondo Vincenzo, poteva diventare una pietra miliare del cinema italiano.

Non sono mai sceso più a sud di Napoli. La Terra Trema era difficile da seguire. Per il dialetto. Quest'altro sarà comprensibile? A Napoli ci ho vissuto due settimane. Laggiù la maggioranza ce l'hanno ancora i monarchici.

Marco precedeva  Giovanni di una decina di metri: avvertì la frenata della bicicletta di Riva. Giovanni, accostato al margine delle carreggiata con un piede a terra e l'altro penzoloni, fissava un vecchio edificio con le finestre chiuse.
-Qui c'era un'osteria.-disse Giovanni-Da quanto l'hanno chiusa?-
-Lo sai Riva, io son qui solo da tre anni. L'ho sempre vista chiusa. Sprangata. Com'è adesso.-rispose Marco che era tornato indietro.
-Si chiamava Osteria del Gallo.-disse un altro compagno che li aveva raggiunti.-La padrona è ancora Agnese Vairos, quella della Lampo. E' andata alla televisione. Io non l'ho vista, me l'hanno detto.-

E'andata alla televisione.

Giovanni non sapeva bene il perché, ma quelle parole lo facevano sorridere. Guardò il compagno, era un operaio dell'acciaieria, sudato e con addosso una camicia bianca e domenicale che poche ore prima doveva esser stata fresca di bucato e stiratura. Sarebbe partito per il servizio militare fra tre mesi, da quattro anni lavorava in fabbrica.
Giovanni fissava le finestre chiuse dell'osteria. Desiderava rimanere solo. Non gli importava più dei meridionali, di Marco che poteva diventare un buon dirigente, della bocciofila, delle elezioni, del giovane operaio che diceva "è andata alla televisione".

Ma perché abbiamo preso questa strada per tornare in città? Che stupido sono stato. Dovevo accorgermene...

-Che si fa?-disse Marco. L'altro pedalava già lontano. Anche Marco aveva voglia di andarsene, lo aspettavano a pranzo dalla fidanzata.
-Vai pure.-rispose Giovanni-Io taglio per i campi. La casa di mia madre è più vicina.-
Non era vero.
-Ci sarai stasera? I compagni delle bocce ci tengono.-
Giovanni guardava un certa finestra al piano più alto. In quella stanza aveva trascorso l'ultima notte insieme ad Agnese. Provò a pensare al tempo. I giorni, tutti messi in fila, formavano dieci anni.

E' questo il tempo che passa? La vita. Trovarsi insieme a un certo Marco, così, appeso al sellino di una bicicletta, e aver voglia di riafferrare i miliardi di minuti che mi stanno alle spalle?

-Certo. Verrò. Verrò. Contateci. Voglio solo star tranquillo oggi: l'ho promesso a mia madre. Ho più di quarant'anni, compagno!-
Marco sorrise.
-Ma va! Sei una roccia, Riva.-
La voglia di essere già in città, in casa di Tina e insieme a tutta la sua famiglia, per Marco lasciò il campo al desiderio di diventare amico di Giovanni. Nonostante la critica per la questione dei meridionali, Marco sentiva che c'erano ancora molte cose da chiarire. Si fidava dell'esperienza politica di Riva, avrebbe voluto chiedergli: "ma perché non ce ne siamo accorti prima. Io ho provato una fitta al cuore quando è morto Stalin."
Marco se pensava alla Russia aveva l'idea di un posto lontano, s'immaginava le ore e i giorni per arrivare a Mosca. E questi pensieri lo turbavano, avrebbe voluto parlare anche di questo con Riva che aveva combattuto, che era entrato nella leggenda per esser fuggito dall'Italia quando era solo un ragazzo.
Giovanni rispose al complimento con un gesto di saluto. Marco pedalò incerto per qualche metro, si volse e disse ancora:
-A più tardi, allora.-

E' bravo Marco. Ho capito che mi stima.

Marco era già un puntino in fondo allo stradone. Giovanni osservò ancora le finestre dell'Osteria del Gallo, scese dalla bicicletta e andò ad appoggiarsi a un paracarro. Cercò le sigarette, ne accese una. Si accorgeva, ma  non l'aveva percepito subito, che nel paesaggio qualcosa era cambiato. Le case, edifici più moderni, sorgevano quà e là e si udivano rumori che una volta non avrebbero disturbato il silenzio del tardo mattino domenicale.

Lei quella sera mi ha detto che non sarebbe venuta a Roma. Io son partito, Agnese è rimasta. Alla stazione, me ne sono accorto, stava per piangere.

Passò un camion diretto verso le montagne e sollevò un gran polverone. Lo seguivano altre macchine piene di gente in gita domenicale.

Aumentano i pic-nic.
Perchè non ho sposato Sibilla? Mi voleva bene. Sarà felice con quel compagno? E lui? Oppure la vita diventerà per loro un quotidiano equivoco? Il marito si accorgerà di recitare la parte del sostituto? Non ho spostato Sibilla perché in qualche parte del mondo c'è Agnese. Il segreto della mia vita. E' questo il motivo della mia solitudine oggi. Qui. Davanti alla vecchia osteria del ritrovato amore. E nel villaggio. E quando discutevo con Marco dei meridionali. Chi è stato a chiedere in Federazione del padrone della Lampo? E l'altro ha  risposto -Ma è la Vairos. Quella ormai non si sposa più-. Perché sono rimasto con gli occhi incollati alle bozze dello stupido manifesto e non mi sono girato per scoprire chi parlava? Conoscono la storia? Ho trovato tante facce nuove. Possibile che Agnese non abbia un uomo? Uno sposato, con moglie e tre figli. Oppure un eterno giovanotto, uno con la passione delle macchine che la fa soffrire di gelosia. Agnese non è il tipo per uomini del genere. Alla riunione hanno detto che alla Lampo non si sta male, che l'azienda ha proposto addirittura un asilo nido. Una quota la mette il lavoratore e un'altra il padrone. Svedese. La libertà sindacale è rispettata alla Lampo, se lo dice il segretario della CGIL c'è da crederci. Eppoi Agnese, è come se fosse una di loro... Un problema in meno. La Lampo non esiste. Agnese si preoccupa dell'asilo nido per le sue operaie, rispetta il sindacato. Se fossero tutti così! Se diventassero tutti come Agnese che bisogno ci sarebbe di noi?

Giovanni si sentì stupido. Ragionamenti del genere, lui? Gli vennero in mente i padroni che se ne fregavano di licenziare, quelli che andavano a giocarsi i soldi delle buste paga il sabato sera al Casinò di Saint Vincent. Egoisti, rozzi, ignoranti e presuntuosi. Scambiavano voti con favori. Agnese li conosceva?  Certo. Per forza doveva essere amica di quella gente. Gli venne in mente di quando avevano parlato di Carlo Marx; allora vivevano insieme e lui era sicuro che i comunisti avrebbero vinto le elezioni e che presto anche l'Italia sarebbe diventata una repubblica socialista.

Giovanni si volse a guardare la bicicletta poggiata contro il paracarro.
Non ce l'avrebbe fatta a partire per Roma senza rivedere Agnese. Lo sapeva.
Accese ancora una sigaretta e salì sulla bicicletta. Pedalava lentamente, non si preoccupava. Sua madre era abituata a pranzare tardi.

Ma che senso ha? La vado a trovare, le dico: ciao, sono qui per vincere le elezioni ora che tutti ci credono morti e sepolti. Dopo la vittoria me ne torno a Roma e se non lo sai, nella vita faccio l'onorevole. Si. L'onorevole comunista. Lo sai che ho fatto strada, Agnese? Ma certo che lo sai. La mia venuta in città sarà stata già passata al setaccio di tutte le bocche d'inferno e qualcuno che conosce la storia ti avrà pur detto che...Vivo come un monaco. Agnese, volevo essere quello del futuro e invece sono un monaco del Medio Evo. Non sono riuscito nemmeno a sposare una donna che mi voleva bene perché, in fondo in fondo, sono troppo aristocratico e dell'amore medio, che me ne faccio? Le dirò: ho saputo che gli affari ti vanno bene. T'ho vista in televisione, una sera a Roma, in un bar. Stavo vicino a una signora con un cappotto...Pensa un po' com'è la vita!

Gettò via la sigaretta.

Ci sono tante donne a Roma. E chi l'ha detto che debbo cercarmele tutte al nord. C'è Luisa, la signora che mi hanno presentato prima di partire. Insegna. In un liceo, mi pare. Quando torno a Roma le telefono, la scusa ce l'ho. Il progetto per la scuola dell'obbligo. Luisa non è iscritta, ma potrebbe. E io ho bisogno di una donna con cui parlare di libri, buoni film. La porto a teatro per cominciare. Poverina. Anche lei ha bisogno di svagarsi: due figli e un marito morto da un anno. Cancro. Aveva la mia età il marito di Luisa.

Pedalò più forte, con violenza. Voleva lasciarsi alle spalle l'Osteria del Gallo. Ma davanti agli occhi non c'era la strada. Agnese lo salutava alla stazione. Tutto ricordava di lei. Il gesto...Poco mancò che a una curva filasse diritto contro un palo. Frenò a stento e avrebbe potuto farsi molto male. Tanto da esser curato. E Agnese allora sarebbe venuta da lui, all'ospedale. Tutto era netto e vivo nella memoria. Le parole di quella sera gli tornarono una dopo l'altra.


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