mercoledì 16 luglio 2014

"Cafard" 1914-1918

Aveva ventiquattro anni e sognava di partecipare al grande momen­to della storia. Ma quei giorni d’agosto, pieni d’entusiasmo e fiori lanciati ai soldati da donne accorse a salutare i soldati che attraversavano le vie di Parigi, lo colsero lontano dalla patria. Lui, ufficiale, si trovava agli Antipodi. A quei tempi con questo nome venivano definiti i luoghi dall’altra parte del mondo e  il padre dell'ardente patriota, un ingegnere assai facoltoso, riuscì a tenerlo a riparo dalla guerra. Il solo legame fra il giovane e il centro della storia, una guerra mai conosciuta per dimensione delle forze in campo e violenza degli strumenti di morte, era una giovane signora, la sua “madrina di guerra”. Lucette. E lui scrisse a Lucette lettere disperate. Ricordava il loro unico incontro avvenuto nell’estate del 1913, e descriveva la sua  prostrazione. Le raccontò il suo “cafard”, quello scoramento che ogni giorno provava sostando davanti a palmizi rigogliosi e incomprensibili. E descrisse il terribile urlo della sirena lamentosa che ogni settimana avvisava la guarnigione all’arrivo del posta­le. Il suo “cafard” era uguale a quello che provavano milioni di uomini come lui, immersi nel fango delle trincee? Il nostro eroe ne era convinto, anzi si considerava il più disgraziato degli esseri umani. E intanto la vita passava, e con la vita gli anni che pesavano sulle spalle. Le notizie dall’Europa giungevano scarse e dicevano che quella guerra non finiva più, qualcuno era convinto che sarebbe durata tutto il secolo. “E io diventerò vecchio.” Questo pensiero era ormai un chiodo fisso.
Ogni sera il nostro eroe usciva dal circolo ufficiali, poco più di una catapecchia dove veniva servito pessimo cognac, e accendeva l’ultima sigaretta. S’incamminava per strade polverose avvolte in un silenzio che sembrava di morte, dalla spiaggia le voci degli indigeni intonavano canti che incutevano timore e inducevano a presagire la malasorte. E gli sembrava che la sua vita finisse in quel luogo sperduto.
Le lettere che riceveva da Lucette  sconfiggevano il suo “ca­fard”, ma dopo l’entusiasmo tutto ricominciava, come e peggio di prima.
Un giorno al nostro eroe passò per la mente il pensiero temerario di fuggi­re, cambiar nome e arruolarsi nella Legione Straniera che combat­teva in Europa. Comunicò quest’idea a Lucette, ma la risposta della sua madrina non giunse in tempo per dissuaderlo: per lui c’era l’ordine di lasciare l’isola.
Si mossero, girarono per mezzo mondo, poi, e finalmente, la nave salpò alla volta dell’Europa. Le ancore vennero levate  e i motori delle navi spinti sino al massimo della potenza, si tornava a casa perchè la patria, come quattro anni prima sulla Marna,  era di nuovo in pericolo e c’era bisogno del sacrificio di tutti.
Nella primavera del 1918 il nostro eroe giunse in Europa, ma non riuscì a incontrare Lucette. Dalla cittadina normanna in cui l’avevano accantonato scrisse promettendole che presto sarebbe andato a trovarla. Invece lo spedirono al fronte e ci andò con l’entusiasmo del neofita. Due giorni dopo un sergente che gli stava accanto ebbe la testa asportata di netto da un proiettile di cannone. Il sergente decapitato per qualche secondo continuò a muovere le gambe. Lui, dopo aver vomitato anche le budella, ebbe voglia di fuggire, pensava che tutto quello che aveva immaginato nei lunghi anni vissuti in capo al mondo era in realtà qualcosa di mostruoso. Accucciato dietro un muro di un villaggio senza più nome sognò di camminare lungo spiagge deserte e ascoltare i canti not­turni degli indigeni. Ma nella vita è molto difficile tornare indietro. Da quel buco fangoso scriveva a Lucette, la implorava come un bambino di non dimenticarlo e di rispondere ogni giorno alle sue lettere. Accanto a lui altri giovani morivano in quelle ore gravi in cui bisognava salvare Parigi e resistere davanti ad Amiens e Chateau Thierry. Non tutte le sue lettere giunsero a destinazione, erano momenti di grande paura e la posta poteva aspetta­re. E venne l’offensiva, il nemico non ce l’avrebbe fatta a vincere la guerra mondiale che stava per finire ed i poilus  sapevano chi erano i vincitori e chi gli sconfitti. In una bella giornata di settembre un enorme proiettile cadde davanti al nostro ufficiale; di lui e dei quattro soldati che gli erano accanto non rimase niente. Scomparvero dalla faccia della terra, e tutto questo avvenne in un panorama desolato di terra fumante, di alberi e tronchi bruciati e sotto un bel sole di settembre. Nei giorni della vittoria Lucette chiese di lui, ma non ebbe alcuna risposta. Sei mesi dopo la fine della guerra un generale, il padre del caduto le inviò una lettera in cui informava la “madrina di guerra” che il suo figlioccio era eroicamente morto sul “campo d’onore”. Lucette avrebbe voluto andare a trovare il padre del suo sfortunato amico, ma i fatti della vita impedirono un viaggio che a quell’epoca si presentava assai faticoso. E Lucette aspettava il suo secondo bambino. Un monumento venne edificato sul luogo in cui il nostro eroe era caduto, sulla lapide c’erano cinquemila nomi di soldati di cui non s’era trovata nemmeno la piastrina. Più tardi altri eserciti passarono accanto a quel monumento e altre bombe caddero nelle sue vicinanze. Poi la vita riprese e l’Europa trovò finalmente un’ambigua pace: si costruirono le autostrade, la gente divenne più ricca, le gonne delle donne si accorciarono tanto da divenire inutili e gli europei finalmente si conobbero un po’ di più.
Accanto al monumento passa un’auto­strada e oggi milioni di uomini, donne e bambini si fermano di giorno e di notte in un grande parcheggio da cui si può osservare la lastra di pietra corrosa dalla pioggia e dai venti. Fra i tanti c’è un nome.
Lucette non lo dimenticò, nella sua memoria rimase  il volto di un giovane che amava la musica e in un pomerig­gio del 1913 era entusiasta di partire per terre lontane, gli Antipodi. 
17/10/2001                                                                                                                     
Stefano Viaggio

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