mercoledì 16 luglio 2014

L'orologio del mondo 1905

Nel villaggio si diceva che la meridiana era stato l’ultimo  regalo di quel conte di cui solo i più vecchi ricordavano la dritta figura, quando lo vedevano passare tra le stradine strette e salire su per i sentieri verso la montagna. Nella memoria di chi era bambino al tempo della sua morte,  era rimasto “il conte” e pian piano anche il nome era stato dimenticato e restava solo quel titolo che ai più non diceva quasi niente, perché di conti lassù non se n’erano mai visti.
Un tempo il conte era stato fedele al suo re e per qualche strana ragione che non tutti capivano, con il passare degli anni l’aveva odiato e, colto da qualche malvagio sortilegio, s’era unito a un gruppetto di giovanotti esaltati dalle idee francesi sopravvissute a Bonaparte.  Sulla bocca degli uomini suonavano come bestemmie urlate a Dio: avevano provocato il regicidio e la disubbidienza dei figli verso i padri, e così era venuta la guerra, la fame e la miseria. E allora  Santa Madre Chiesa ordinava di bruciare i libri su cui erano stampate le cattive idee, chiunque li possedeva doveva, pena l’inferno, consegnarli al curato e farli distruggere. I falò venivano accesi davanti alle chiese e il Vescovo in persona appiccava il fuoco. E mentre i libri bruciavano tutti cantavano inni di ringraziamento per il pericolo scampato. 
Quei fatti ormai lontani li raccontavano i vecchi nelle sere d’inverno passate nella stalla.
-La congiura contro il re - dicevano - era stata scoperta e solo il conte s’era salvato dalla forca.-
Ma il prezzo era stato l’esilio in una grande casa accanto al villaggio costruito chissà quanti secoli prima a ridosso di un bosco, appena più giù dei pianori coperti di neve anche d’estate per via del vento che soffiava dai ghiacciai. E pochi anni dopo la morte del conte anche la casa era crollata, perché l’acqua di un torrente ingrossato dalla troppa pioggia l’aveva invasa e fatta cader giù in un batter d’occhio. Un segno del cielo anche questo.
Il conte era vissuto e morto nel villaggio dove era nato Armand, ma prima di andarsene all’altro mondo con tutti i suoi peccati, e non aveva voluto un solo prete al suo capezzale, aveva ordinato a un  tal Chiaffredo, valsesiano e pittore vagante, di dipingere sulla facciata di una casa rivolta a mezzogiorno,  una grande meridiana che segnasse l’ora delle più grandi città del mondo.
Era stato il suo regalo alla gente del villaggio, che amava quasi come una famiglia, visto che la sua se ne stava al calduccio in città e l’aveva rinnegato.
Il conte era morto prima che Armand venisse al mondo e quando il bambino aveva chiesto cosa volesse dire la pittura con le facce del sole e della luna e quel bastone di ferro al centro di un cerchio con strani segni, suo nonno aveva risposto:
-É l’orologio del mondo.-
Armand spesso rimaneva a guardare la grande pittura,  così incantato da non sentire nemmeno la voce di sua madre che lo chiamava per mandarlo a radunare le capre.
“E’ lui che fa venire il freddo e il caldo, fa nascere i fiori e suonare le campane quando il sole spunta sopra la montagna e la luna sorge dal bosco.”
Questo si ripeteva il bambino ogni volta che poteva restare solo a guardare il suo grande orologio che gli adulti ora degnavano di un raro e fuggevole sguardo, tanto la meridiana s’era  rovinata per le piogge e il gelo dei lunghi inverni.
Armand viveva lassù.
Le Alpi gli stavano davanti agli occhi e segnavano un confine invalicabile. Solo una volta era sceso al piano, doveva servire il nuovo re in una guerra di cui non capì mai del tutto i grandi motivi. Dopo quella guerra ad Armand avevano detto che ora tutti facevano parte di una patria più grande che si chiamava Italia,  e la capitale di questa Italia sarebbe stata la più bella città del mondo: Roma. Era il posto dove San Pietro e di San Paolo erano stati uccisi da imperatori cattivi e in cui abitava un Papa buono che aveva litigato con un  re pieno di superbia. Armand non aveva mai visto questo re. Ma sapeva bene che ogni anno costui veniva a cacciare camosci e stambecchi nelle valli poco lontane dal villag­gio.
Era una grande festa per chi era chiamato a lavorare per il riposo e lo svago del re, anzi tutti non vedevano l’ora che il banditore venisse su per la montagna ad annunciare la venuta del re. Ma il banditore faceva un giro più corto e la gente del villaggio di Armand non andava a servire il riposo del re. Era  per via di quel conte morto tanti anni prima? Qualcuno sosteneva che il nuovo re non aveva perdonato il conte,  l’orologio portava male e che sarebbe stato un gran bene farlo sparire dalla facciata della casa che s'era trasformata in un fienile. Il nostro Armand, quando sentiva le chiacchiere dei suoi compaesani non diceva mai la sua e fra se pensava che nessuna ragione al mondo valeva quanto l’esser lasciati in pace a cuocere nel proprio brodo. Lui, che aveva fatto la guerra, non poteva vedere ne fucili ne spade. Figuriamoci un signore, fosse pure un gran re, che spara a stambecchi e camosci solo per passare un po’ di tempo all’aria buona dei monti.
Per il nostro Armand la patria rimaneva il villaggio.
I suoi tesori?  Le capre e il bosco con la legna da tagliare. E poi c’erano la neve, la pioggia e il vento che  portava le voci dai pianori coperti di neve dove vagavano le anime dei morti condannati al Purgatorio. Così dicevano i vecchi.
Armand prese moglie e nacquero tre figli maschi, il terzo, Leo­pold, venne al mondo a una distanza di quindici anni dagli altri due e il curato disse che era una benedizione di Dio. E così Armand dovette pensare a un’altra bocca da sfamare. Conosceva gente dei villaggi sull'altro versante della montagna che aveva deciso di andarsene in Francia, ma lui sentiva di essere troppo vecchio per valicare le Alpi e affrontare il mondo. Se i pericoli c’erano al villaggio per via delle malelingue, figuriamoci così lontano!
E allora continuò a lavorare, lavorare, lavorare. Ogni tanto Armand sentiva il fiato che se ne andava via dal petto, era come un lento risucchio e doveva sedersi con le spalle appoggiate a una pietra. Restava così, a guardare il cielo e sentiva la vita, d’un tratto, che si faceva più lontana. Ma, e si stupiva, non provava paura per questo.
Ogni tanto guardava i suoi figli e si chiedeva quando sarebbero scesi al piano. Ora c’era il treno, la cosa lunga che mandava fumo: era una macchina straordinaria, dicevano, ma lui non ci sarebbe mai salito sopra. Di questo potevano star ben certi! E Armand aspettava il postino con la carta colorata nella bisaccia per annunciare che i suoi figli, uno ad uno, dovevano scendere in basso a servire il re. Pronti a fare una guerra per il re, come era successo a lui. Si chiedeva quando sarebbe accaduto,  e allora andava a guardare il suo vero e unico amico: l’orologio solare ormai tanto scolorito che si faticava a leggere i nomi delle città del mondo.
E pensava  al re e ai suoi figli, poi faceva una preghiera.
“Orologio del mondo, vai più piano.”
Ma intanto il tempo passava. E venne il postino che si portò via prima Antoine, poi Joseph. Armand continuò a lavorare nel bosco, anche quando il fiato mancava nel petto. Ma un giorno venne lassù il dottore per dare un’occhiata alla moglie del mugnaio. Il dottore già anziano, portava una grande barba e parlava con la voce forte come un tuono. Armand aveva paura di quell’uomo che conosceva i misteri della vita e ti guardava dentro per capire se eri vivo oppure prossimo alla morte. Il dottore ascoltò il cuore e i polmoni di Eufrasie, scosse la testa e il mugnaio chinò il capo per guardare il pavimento di terra polverosa. Il dottore prima di salire sul mulo diede uno sguardo all’orologio solare, poi si rivolse alla gente e disse:
-Ero ragazzo quando il conte morì, me lo ricordo bene. E’ gente che  non esiste più, è come questa meridiana scolorita. Non serve più e non servirà mai più a niente. Un giorno dovre­te lasciare il villaggio e scendere in basso, non potete più vivere insieme alle bestie. Il vostro orologio s’è fermato per sempre!-
E se ne andò in groppa al mulo senza aggiungere una parola.
Era stato in quel momento che Armand aveva provato un gran freddo nel petto. Tutti avrebbero dato ragione al dottore e avrebbero cancellato l’orologio. Con chi avrebbe parlato? Il mugnaio stava con la testa china e aspettava, gli altri se ne tornavano a casa oppure ai propri affari, i bambini nella loro innocenza giocavano attorno alla vecchia fontana. Fu in quel momento che una grande nuvola nera oscurò il sole.
“Ecco il segno! Ha ragione il dottore…”mormorò Armand.
La grande meridiana solare era un arnese vecchio e inutile. I nomi delle città del mondo se l’era mangiati il tempo, fra poco la nuova neve avrebbe cancellato una volta per tutte anche il ricordo di luoghi lontani e per sempre irraggiungibili, ma che da qualche pure esistevano. Ne era certo.  La nube passò e il sole tornò a battere sulla meridiana, ma ora Armand non aveva più speranze nel cuore. Voltò le spalle all’orologio del mondo e se ne tornò a casa. Quella sera andò a letto con un’idea fissa nella testa: bisognava andare al piano, lasciare il villaggio al più presto prima che il suo orologio scompa­risse del tutto. Sì, via!
Fu quella notte che Armand morì, nel sonno, senza aver comunicato la decisione a sua moglie.
Natalie dopo il funerale andò dal curato per chieder consiglio e si fermò a parlare col merciaio ambulante.
Laggiù cercavano donne per un lavoro nuovo in un grande capannone, disse il merciaio, e forse anche per Leopold c’era da fare perché si diceva che vicino alla ferrovia avrebbero costruito una fornace più grande di tutte quelle che c’erano state prima.
Natalie allora riunì i suoi figli e disse che non era più possi­bile vivere lassù, ora che il loro padre era morto. I figli non discussero nemmeno, risposero che già da tempo pensavano di scendere in basso e prender moglie.
Della famiglia di Armand nessuno tornò più al villaggio per molti anni e nessuno parlò dell’orologio del mondo. Solo a Leopold ogni tanto veniva in mente suo padre, lo ricordava impalato a  guardare il lento cammino della meridiana, da una città all’altra, da un continente all’altro. Questo era il ricordo  che Leopold aveva di suo padre.


Praulin 1/7/2001    
Stefano Viaggio

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