Nel
villaggio si diceva che la meridiana era stato l’ultimo regalo di quel conte di cui solo i più vecchi
ricordavano la dritta figura, quando lo vedevano passare tra le stradine
strette e salire su per i sentieri verso la montagna. Nella memoria di chi era
bambino al tempo della sua morte, era
rimasto “il conte” e pian piano anche il nome era stato dimenticato e restava
solo quel titolo che ai più non diceva quasi niente, perché di conti lassù non
se n’erano mai visti.
Un tempo il conte era stato fedele al suo
re e per qualche strana ragione che non tutti capivano, con il passare degli
anni l’aveva odiato e, colto da qualche malvagio sortilegio, s’era unito a un
gruppetto di giovanotti esaltati dalle idee francesi sopravvissute a Bonaparte. Sulla bocca degli uomini suonavano come
bestemmie urlate a Dio: avevano provocato il regicidio e la disubbidienza dei
figli verso i padri, e così era venuta la guerra, la fame e la miseria. E
allora Santa Madre Chiesa ordinava di
bruciare i libri su cui erano stampate le cattive idee, chiunque li possedeva
doveva, pena l’inferno, consegnarli al curato e farli distruggere. I falò
venivano accesi davanti alle chiese e il Vescovo in persona appiccava il fuoco.
E mentre i libri bruciavano tutti cantavano inni di ringraziamento per il
pericolo scampato.
Quei fatti ormai lontani li raccontavano i
vecchi nelle sere d’inverno passate nella stalla.
-La congiura contro il re - dicevano - era
stata scoperta e solo il conte s’era salvato dalla forca.-
Ma il prezzo era stato l’esilio in una
grande casa accanto al villaggio costruito chissà quanti secoli prima a ridosso
di un bosco, appena più giù dei pianori coperti di neve anche d’estate per via
del vento che soffiava dai ghiacciai. E pochi anni dopo la morte del conte
anche la casa era crollata, perché l’acqua di un torrente ingrossato dalla
troppa pioggia l’aveva invasa e fatta cader giù in un batter d’occhio. Un segno
del cielo anche questo.
Il conte era vissuto e morto nel villaggio
dove era nato Armand, ma prima di andarsene all’altro mondo con tutti i suoi
peccati, e non aveva voluto un solo prete al suo capezzale, aveva ordinato a
un tal Chiaffredo, valsesiano e pittore
vagante, di dipingere sulla facciata di una casa rivolta a mezzogiorno, una grande meridiana che segnasse l’ora delle
più grandi città del mondo.
Era stato il suo regalo alla gente del
villaggio, che amava quasi come una famiglia, visto che la sua se ne stava al
calduccio in città e l’aveva rinnegato.
Il conte era morto prima che Armand venisse
al mondo e quando il bambino aveva chiesto cosa volesse dire la pittura con le
facce del sole e della luna e quel bastone di ferro al centro di un cerchio con
strani segni, suo nonno aveva risposto:
-É l’orologio del mondo.-
Armand spesso rimaneva a guardare la grande
pittura, così incantato da non sentire nemmeno
la voce di sua madre che lo chiamava per mandarlo a radunare le capre.
“E’ lui che fa venire il freddo e il caldo,
fa nascere i fiori e suonare le campane quando il sole spunta sopra la montagna
e la luna sorge dal bosco.”
Questo si ripeteva il bambino ogni volta
che poteva restare solo a guardare il suo grande orologio che gli adulti ora
degnavano di un raro e fuggevole sguardo, tanto la meridiana s’era rovinata per le piogge e il gelo dei lunghi
inverni.
Armand viveva lassù.
Le Alpi gli stavano davanti agli occhi e
segnavano un confine invalicabile. Solo una volta era sceso al piano, doveva
servire il nuovo re in una guerra di cui non capì mai del tutto i grandi
motivi. Dopo quella guerra ad Armand avevano detto che ora tutti facevano parte
di una patria più grande che si chiamava Italia, e la capitale di questa Italia sarebbe stata
la più bella città del mondo: Roma. Era il posto dove San Pietro e di San Paolo
erano stati uccisi da imperatori cattivi e in cui abitava un Papa buono che
aveva litigato con un re pieno di
superbia. Armand non aveva mai visto questo re. Ma sapeva bene che ogni anno
costui veniva a cacciare camosci e stambecchi nelle valli poco lontane dal
villaggio.
Era una grande festa per chi era chiamato a
lavorare per il riposo e lo svago del re, anzi tutti non vedevano l’ora che il
banditore venisse su per la montagna ad annunciare la venuta del re. Ma il
banditore faceva un giro più corto e la gente del villaggio di Armand non
andava a servire il riposo del re. Era
per via di quel conte morto tanti anni prima? Qualcuno sosteneva che il
nuovo re non aveva perdonato il conte,
l’orologio portava male e che sarebbe stato un gran bene farlo sparire
dalla facciata della casa che s'era trasformata in un fienile. Il nostro
Armand, quando sentiva le chiacchiere dei suoi compaesani non diceva mai la sua
e fra se pensava che nessuna ragione al mondo valeva quanto l’esser lasciati in
pace a cuocere nel proprio brodo. Lui, che aveva fatto la guerra, non poteva
vedere ne fucili ne spade. Figuriamoci un signore, fosse pure un gran re, che
spara a stambecchi e camosci solo per passare un po’ di tempo all’aria buona
dei monti.
Per il nostro Armand la patria rimaneva il
villaggio.
I suoi tesori? Le capre e il bosco con la legna da tagliare.
E poi c’erano la neve, la pioggia e il vento che portava le voci dai pianori coperti di neve
dove vagavano le anime dei morti condannati al Purgatorio. Così dicevano i
vecchi.
Armand prese moglie e nacquero tre figli
maschi, il terzo, Leopold, venne al mondo a una distanza di quindici anni
dagli altri due e il curato disse che era una benedizione di Dio. E così Armand
dovette pensare a un’altra bocca da sfamare. Conosceva gente dei villaggi sull'altro
versante della montagna che aveva deciso di andarsene in Francia, ma lui
sentiva di essere troppo vecchio per valicare le Alpi e affrontare il mondo. Se
i pericoli c’erano al villaggio per via delle malelingue, figuriamoci così
lontano!
E allora continuò a lavorare, lavorare,
lavorare. Ogni tanto Armand sentiva il fiato che se ne andava via dal petto,
era come un lento risucchio e doveva sedersi con le spalle appoggiate a una
pietra. Restava così, a guardare il cielo e sentiva la vita, d’un tratto, che
si faceva più lontana. Ma, e si stupiva, non provava paura per questo.
Ogni tanto guardava i suoi figli e si
chiedeva quando sarebbero scesi al piano. Ora c’era il treno, la cosa lunga che
mandava fumo: era una macchina straordinaria, dicevano, ma lui non ci sarebbe
mai salito sopra. Di questo potevano star ben certi! E Armand aspettava il
postino con la carta colorata nella bisaccia per annunciare che i suoi figli,
uno ad uno, dovevano scendere in basso a servire il re. Pronti a fare una
guerra per il re, come era successo a lui. Si chiedeva quando sarebbe accaduto, e allora andava a guardare il suo vero e
unico amico: l’orologio solare ormai tanto scolorito che si faticava a leggere
i nomi delle città del mondo.
E pensava
al re e ai suoi figli, poi faceva una preghiera.
“Orologio del mondo, vai più
piano.”
Ma intanto il tempo passava. E venne il
postino che si portò via prima Antoine, poi Joseph. Armand continuò a lavorare
nel bosco, anche quando il fiato mancava nel petto. Ma un giorno venne lassù il
dottore per dare un’occhiata alla moglie del mugnaio. Il dottore già anziano,
portava una grande barba e parlava con la voce forte come un tuono. Armand
aveva paura di quell’uomo che conosceva i misteri della vita e ti guardava
dentro per capire se eri vivo oppure prossimo alla morte. Il dottore ascoltò il
cuore e i polmoni di Eufrasie, scosse la testa e il mugnaio chinò il capo per
guardare il pavimento di terra polverosa. Il dottore prima di salire sul mulo
diede uno sguardo all’orologio solare, poi si rivolse alla gente e disse:
-Ero ragazzo quando il conte morì, me lo
ricordo bene. E’ gente che non esiste
più, è come questa meridiana scolorita. Non serve più e non servirà mai più a
niente. Un giorno dovrete lasciare il villaggio e scendere in basso, non
potete più vivere insieme alle bestie. Il vostro orologio s’è fermato per
sempre!-
E se ne andò in groppa al mulo senza
aggiungere una parola.
Era stato in quel momento che Armand aveva
provato un gran freddo nel petto. Tutti avrebbero dato ragione al dottore e
avrebbero cancellato l’orologio. Con chi avrebbe parlato? Il mugnaio stava con
la testa china e aspettava, gli altri se ne tornavano a casa oppure ai propri
affari, i bambini nella loro innocenza giocavano attorno alla vecchia fontana.
Fu in quel momento che una grande nuvola nera oscurò il sole.
“Ecco il segno! Ha ragione il dottore…”mormorò
Armand.
La grande meridiana solare era un arnese
vecchio e inutile. I nomi delle città del mondo se l’era mangiati il tempo, fra
poco la nuova neve avrebbe cancellato una volta per tutte anche il ricordo di
luoghi lontani e per sempre irraggiungibili, ma che da qualche pure esistevano.
Ne era certo. La nube passò e il sole
tornò a battere sulla meridiana, ma ora Armand non aveva più speranze nel
cuore. Voltò le spalle all’orologio del mondo e se ne tornò a casa. Quella sera
andò a letto con un’idea fissa nella testa: bisognava andare al piano, lasciare
il villaggio al più presto prima che il suo orologio scomparisse del tutto.
Sì, via!
Fu quella notte che Armand morì, nel sonno,
senza aver comunicato la decisione a sua moglie.
Natalie dopo il funerale andò dal curato
per chieder consiglio e si fermò a parlare col merciaio ambulante.
Laggiù cercavano donne per un lavoro nuovo
in un grande capannone, disse il merciaio, e forse anche per Leopold c’era da
fare perché si diceva che vicino alla ferrovia avrebbero costruito una fornace
più grande di tutte quelle che c’erano state prima.
Natalie allora riunì i suoi figli e disse
che non era più possibile vivere lassù, ora che il loro padre era morto. I
figli non discussero nemmeno, risposero che già da tempo pensavano di scendere
in basso e prender moglie.
Della famiglia di Armand nessuno tornò più
al villaggio per molti anni e nessuno parlò dell’orologio del mondo. Solo a
Leopold ogni tanto veniva in mente suo padre, lo ricordava impalato a guardare il lento cammino della meridiana, da
una città all’altra, da un continente all’altro. Questo era il ricordo che Leopold aveva di suo padre.
Praulin 1/7/2001
Stefano Viaggio
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