giovedì 14 agosto 2014

Pietra

Un bel giorno gli capitò di raccogliere una pietra.
L'eroe della nostra storia passeggiava lungo un viottolo dominato da un'alta parete di roccia e la pietra venne giù da una grossa sporgenza in alto, quasi un piccolo balcone naturale. Questo signore con i capelli tutti bianchi, osservò la parete sovrastante, s'accorse che mostrava qualche crepa e pensò che passare proprio lì sotto era un rischio; allora, sempre con la testa all'insù, si spostò sul margine del sentiero e superò il punto in cui era caduta la pietra. Non era la prima volta che veniva a passeggiare attorno alla collina e non aveva mai prestato troppa attenzione alle crepe. Da viottolo si godeva un'ottima vista sul paesaggio delle alte montagne e ora, mentre procedeva per la sua strada, osservava le cime che nell'inoltrata primavera conservavano la neve dell'inverno. Il ghiacciaio della montagna più alta scendeva verso la stretta valle e già oscura, quasi a volerla occupare per intero. Era un'illusione ottica, il ghiacciaio si fermava molto più in alto e presto, con il caldo dell'estate, si sarebbe ridotto ad una lingua grigiastra e incombente. Questa sorta di Stephen Dedalus contemporaneo sapeva che tutte le valli, piccole e grandi, un giorno lontano erano state occupate da ghiacciai che le avevano tagliate, sbriciolate, modellate; nella loro avanzata quei ghiacciai si gettavano in uno più vasto e imponente che a sua volta aveva tagliato e modellato la grande valle su cui si affacciava il sentiero che gli piaceva percorrere almeno una volta alla settimana.
Il nostro non aveva mai prestato grande attenzione agli strati di roccia sovrapposta sulla parete. Uno sull'altro, più chiari e più grigi, più spessi e più sottili, gli ricordavano le pagine di un grosso libro antico e polveroso.
Proseguì il suo cammino sino a giungere ad un pianoro circondato da vigneti; da quel punto panoramico si poteva osservare l'intera valle, con le montagne lontane e i villaggi appoggiati sui terrazzi naturali, anch'essi di origine glaciale. In mezzo alla piana c'era la città. Poteva distinguere i campanili delle antiche chiese e le ciminiere dell'acciaieria, un tempo molto più estesa, e i palazzi moderni. Se guardava in basso, verso destra, vedeva la strada nazionale trafficata di macchine e camion e, come una rotaia parallela, l'autostrada in quel momento quasi deserta. Si, da quel pianoro che era il suo punto di osservazione preferito, aveva sempre provato la sensazione di trovarsi su un grande palcoscenico. Vedeva i castelli in cui si rifugiavano gli antichi signori che avevano dominato la valle e si potevano indovinare le torri della città romana, poi occupate dai nobilotti e trasformate in fortilizi per difendersi dalle incursioni e farsi la guerra tra loro. Castelli, torri, villaggi, tutto era fatto con la pietra. Sapeva che quasi all'inizio della città, vicino ad una chiesetta ormai cancellata alla vista da un palazzo di vetro e cemento,  certi archeologi che conosceva avevano trovato testimonianze di pietra della gente che aveva popolato la valle prima che arrivassero i romani a conquistarla. Laggiù seppellivano i morti. Gli antichi avevano alzato pietre  su cui qualcuno aveva scolpito volti, armi e ornamenti per ricordare uomini e donne importanti. Un guerriero, una sacerdotessa, un vecchio saggio. E questo signore, la cui figura si stagliava contro l'orizzonte, immaginò quella gente che più di quattromila anni prima trasportava le grandi pietre che il fiume portava a valle e dava loro una forma. Ogni tanto uno di loro sollevava il capo e guardava le montagne che di notte erano visitate dalla sfera bianca che attraversava il cielo tra i picchi come il volto di una madre che osserva i suoi figli.
Gli parve d'un tratto di essere circondato da un mondo di pietre e di rocce e improvvisamente sentì tra i capelli il soffio del vento che scuoteva le foglie e muoveva le nuvole bianche nel cielo. Tornò sui suoi passi. Rifletteva non tanto sullo spettacolo che aveva appena visto e che gli era famigliare, ma su quella pietra venuta giù all'improvviso dalla parete. Voleva ritrovarla. Giunto sul punto in cui per poco non gli era caduta sulla testa si guardò attorno, con disappunto si accorse che ne erano venute giù altre prima di quella, forse per la pioggia dei giorni precedenti, oppure chissà quando. Non aveva mai fatto veramente attenzione a quelle pietre. E invece la vide. Stava lì, ferma vicino a un ciuffo d'erba che cresceva in mezzo al sentiero. Sembrava un po' piatta e quando la raccolse, tra le mani sentì la sua pesantezza e la ruvidità dei bordi. Fu a quel punto che gli venne sulle labbra la domanda : "da dove vieni?". Certo, la risposta era semplice: dalla parete di roccia. La pietra era caduta da almeno una decina di metri sopra la sua testa. Era stata sino a mezz'ora prima parte di quella roccia simile alle pagine di un libro: foglio su foglio, uno posato sopra l'altro. E la parete? Da dove veniva la parete? Il  rapporto del nostro eroe con le pietre era strano. In verità, gli venne in mente, lui aveva un rapporto ben preciso con le pietre. Le fotografava. E quando lo faceva non si chiedeva mai il perché quella pietra o quella roccia fosse proprio in quel punto della montagna o davanti al mare. Le forme delle pietre lo affascinavano. Era la luce che dava alle rocce una forma. Sul mare, ad esempio,  le rocce sembravano un'altra cosa. Gli ricordavano volti misteriosi con profili immensi e sovrastanti. La stranezza dei contorni gli suggeriva l'idea dei  titani: esseri strani giunti sulla terra da chissà dove e che s'erano fermati per sempre lì a ricordare qualcosa agli uomini. Insomma il suo rapporto con le pietre era di tipo assolutamente intellettuale, perché lui era un intellettuale. Aveva letto tanti libri, ne aveva scritto qualcuno e lo affascinava la luce che improvvisamente dava forma nuova a qualcosa.
Le rocce e le pietre erano il suo soggetto preferito: non bisognava faticare per spostarle, stavano lì ferme per farsi fotografare. Ma ora quella pietra insignificante che non aveva alcun colore particolare, venuta giù pochi secondi prima che passasse in quel punto preciso del sentiero, gli aveva fatto sorgere una domanda precisa e che chiedeva una risposta altrettanto precisa. Voleva sapere da dove veniva quella pietra, perché stava proprio lì, perché era caduta, cosa conteneva. Insomma, pensò, per la prima volta gli si poneva davanti il problema della scienza. E improvvisamente si accorse che lungo quel sentiero c'era altro. Si fermò di colpo e s'avvicinò a uno dei muretti eretti per costruire piccole terrazze in cui piantare magri vigneti. La montagna di bassa quota era piena di questi muretti che formavano il paesaggio digradante verso l'alto.
Era un muretto antico, lo si intuiva dalla patina terrosa che ricopriva le pietre che lo componevano. Si accorse o quanto meno fu la prima volta che se ne rese conto, che le pietre erano tutte diverse fra loro, non tanto per la forma che gli uomini avevano dato loro per ridurle in blocchetti, ma per il colore originario e la materia di cui erano fatte. Quelle verdastre, ad esempio, perché avevano un colore che gli era più simpatico delle altre? E cosa voleva dire esser composta da tanti fogli tutti uguali, come la parete di roccia da dove era venuta giù la pietra che per poco non l'aveva mandato all'ospedale? E perché un'altra, sempre fatta a strati, poi s'incurvava come un pezzo di metallo fuso, battuto e lavorato da un fabbro. E le linee bianche che solcavano le pietre sembravano una trama misteriosa, quasi quanto la levigatezza della roccia e formavano sottili ricami. Gli parve che alcune, rotonde, avessero una forma perfetta. Certamente le avevano prese dal fiume che scorreva nel fondo della valle centrale. Quel muretto poteva avere al massimo cent'anni. A quel tempo non c'erano strade o camion per trasportare le pietre, solo muli e fatica di braccia. Così l'uomo da secoli aveva imparato a domare la montagna a forza di fatica, spostando le pietre da un posto all'altro, caricandole sui muli e seguendo sentieri antichi e tracciati dalle generazioni che li aveva preceduti. Sì, bisognava essere proprio stupidi a pensare che in mezzo alle montagne non succedeva niente. Come aveva sentito dire da qualcuno. Altroché se succedeva, succedeva eccome! Riprese il cammino dicendosi che aveva tutto il tempo per scendere al fiume e andare a guardare le pietre rotonde che gli piacevano tanto. Ricordava un punto in cui erano proprio tante e tutte sparse sulla riva. Ma poi, quando già vedeva la sua macchina parcheggiata in un piazzale laggiù in fondo, si accorse di qualcos'altro. Dove finivano i muretti c'era uno strato di roccia bassa che gli ricordava l'altra parete, per la forma e gli strati sovrapposti: era come se la parete stessa iniziasse da quella roccia che affiorava dalla terra, ma la cosa più singolare era il fatto che lo strato di roccia era coperto da un altro strato e questa volta fatto di terra e ciottoli. Tutto sembrava ben compattato e spesso; alzò gli occhi e si rese conto che quel miscuglio caotico non sembrava venuto giù a causa di una frana, ma stava lì da un tempo difficile da misurare, anche perché sopra c'era altra pietra. Si, un'atra parete di pietra compatta un po' simile e un po' diversa da quella sotto la quale di solito passava e che aveva tirato giù la pietra che teneva in mano. Fece un calcolo: una bassa parete di roccia sovrastata da uno strato di terra  e sassi cementati insieme, una parete più in alto e quella più in basso. Notò che c'erano su quella più alta delle grandi striature verdastre allungate in direzione della cima. Il colore era simile a quello di alcune pietre incastrate nel muretto che aveva osservato un attimo prima e altre, più chiare e più gialle oppure tendenti al rosso erano lì, belle rotonde, in mezzo alla terra che un tempo era stata fango. Vide un grosso blocco chiaro e puntinato di scuro. Sì, quella pietra la conosceva: era granito. Simile agli scalini di casa sua. Che caos! Pietre, pietre, pietre...C'era da farsi girare la testa a forza di pietre. Salì in macchina e ripartì dicendosi che doveva tornare e fotografare un paesaggio che ora gli sembrava diverso e nuovo.
Poi una notte sognò.
Non sapeva come, ma non dal sentiero che costeggiava la collina in cui era solito andare a camminare, era giunto sul pianoro attorniato dai vigneti e da cui si poteva osservare la valle. I vigneti non c'erano e il terreno  era arido, sembrava sconvolto dal passaggio di grandi ruspe, ma non vedeva attorno a se le tracce di cingoli e non sentiva rumori di macchine al lavoro. Si guardava intorno e non vedeva la valle, ma al suo posto una grande distesa grigiastra, a tratti più chiara o più scura. Non c'erano le montagne che era abituato ad osservare e nemmeno la città, il fiume con le sue anse, i campi, le vigne. Tutto sembrava assente: si, c'erano monti, ma avevano profili diversi, era come se alcuni s'insinuassero tra quell'immensa lingua grigiastra e immobile. Vedeva cime più alte di quelle che conosceva e tra loro scendevano fiumi immobili, ora bianchi, ora grigi, ora più scuri. Quei fiumi talora quasi sovrastavano le cime, come se le sommergessero. I rumori c'erano, ma lontani, come i tuoni di un temporale che si  scatenava sulle creste di montagne invisibili, perché separate e coperte da altre montagne con profili sconosciuti e da altro grigiore. E nonostante quel rumore di tuono il sole era abbagliante e forte, la luce si rifletteva sul paesaggio desolato e accecava gli occhi tanto che il sognatore dovette proteggerli con le mani sino a portarle per un momento davanti al viso e quando tra le dita cercò di osservare attorno a se, gli parve di scorgere qualcosa in lontananza che si muoveva sulla grande distesa ai suoi piedi. Si, c'era qualcuno che camminava: erano piccoli puntini che andavano verso sud; non sapeva distinguere bene quanti fossero, ma capì che erano esseri umani. Più venivano avanti e meglio distingueva quel gruppo di gente che gli sembrò vestita in modo assai diverso: erano coperti di pelli e portavano bastoni. Non riusciva a mettere bene a fuoco i tratti dei loro volti, non sapeva se erano uomini e donne o solo un gruppo di uomini, ma li vedeva camminare spediti con i loro lunghi capelli mossi dal vento che improvvisamente s'era levato. Allora cercò di chiamarli, come un naufrago cercò di richiamare la loro attenzione su di se, cercò di fare un gesto di saluto e agitare le braccia, ma non ci riuscì. Sentiva il corpo rigido, legato, tenuto contratto da una forza che gli impediva qualunque movimento. E urlò. I viandanti nella grande distesa grigia non sembrarono avvertire quel grido e neanche quelli che vennero dopo. Procedevano in avanti, verso il sole, con i loro bastoni, le pelli e i lunghi capelli al vento. Fece un ultimo sforzo per urlare più forte e sentì che la gola si stava lacerando.
E dal dolore il nostro sognatore si svegliò.
Dieci giorni dopo quel sogno iniziò a piovere. Era ottobre e quella pioggia che aumentava di ora in ora seguiva belle e calde giornate in cui la natura sembrava risplendere nel bellissimo autunno. La pioggia si trasformò in un'alluvione che sarà ricordata nella memoria della gente. Ci furono paesi devastati e fabbriche allagate, morirono diciannove persone e intere vallate furono trasformate da valanghe d'acqua nera che scendeva giù dai monti. Un villaggio sorto in un punto della media montagna che chiamavano "rovine", in tempi recenti si era ingrandito e vecchi ruderi erano stati ricostruiti, c'erano belle villette di colore rosa pallido e azzurro cielo. A monte del villaggio la roccia franò e formò un lago, la pioggia insistente fece tracimare l'acqua che piombò giù molto violenta in quello che un tempo era stato il letto di un antico torrente vicino al quale nessuno mai aveva costruito case. Tre villette furono distrutte nel giro di poche ore e i loro proprietari a stento riuscirono a mettersi in salvo. L'eroe della nostra storia andò a vistare "rovine" il giorno dopo il disastro. Con qualche difficoltà raggiunse il luogo in cui i danni erano stati più gravi, si fermò a guardare la strada e le case che non c'erano più. L'acqua del torrente scorreva giù dalla montagna e portava con se oggetti, carte e stracci di quello che era stato il vivere quotidiano nelle villette distrutte. Il tempo, nel giro di poche ore, era radicalmente mutato e un sole bellissimo splendeva su tutta la valle. Un gruppetto di abitanti che avevano avuto pochi danni stava riunito vicino all'antico forno del villaggio; la costruzione, vecchia almeno di  un secolo, non era stata toccata dal nuovo torrente che s'era formato nei due giorni precedenti. Il nostro pensò che un motivo doveva pur esserci per chiamare "rovine" quel villaggio: si avvicinò al gruppo di persone e sentì un giovanotto che commentava così lo spettacolo di distruzione che avevano davanti agli occhi.
-Mio nonno mi portava lassù quando ero bambino e diceva sempre che l'acqua si nasconde dentro le rocce, d'inverno gela e lentamente le sgretola. Lassù è tutta una frana, mio nonno sapeva quali erano i punti più pericolosi e diceva che di qua, a ovest dei pini, non aveva mai visto scendere acqua dalla montagna.-
Il nostro personaggio si allontanò dal gruppetto che continuava a discutere e a scuotere il capo. A un tratto vide ai suoi piedi una bambola di plastica sporca di fango: si trovava abbastanza lontano dalle case distrutte e gli venne in mente che la forza dell'acqua doveva essere stata di grande potenza. Dal momento in cui aveva cominciato ad occuparsi delle pietre in maniera diversa dal passato, non gli era mai venuto in mente quel particolare che ora assumeva una grande importanza  nelle sue meditazioni e ricerche.
Attese nel buio: don deng don deng don deng.
Accese la lampada: ora il vecchio pendolo faceva iniziare un nuovo giorno. L'eroe della storia allora cominciò a contare e al posto del tondo del pendolo gli apparvero le immagini che aveva visto sui libri e che descrivevano il progredire della vita sulla  Terra sino a quando era arrivato l'uomo. Stava in pigiama davanti al vecchio pendolo che di notte teneva rigorosamente fermo per via del rumore che gli avrebbe impedito di dormire: era un lascito antico della famiglia e non lo avrebbe mai ceduto a nessun antiquario. Ma quella sera aveva voluto fare una prova, a mezzanotte aveva lasciato che l'orologio iniziasse a contare i secondi e poi i minuti. Ora quel don deng gli stava raccontando la storia del mondo. Non c'era bisogno di stare ad osservare le lancette muoversi lentamente perché sapeva che per il momento di tempo a disposizione ne aveva abbastanza: bisognava aspettare più di mezz'ora, anzi più o meno tre quarti d'ora. Si avvicinò alla finestra e guardò la notte stellata. Laggiù c'erano le montagne e la Luna illuminava il paesaggio notturno come se fosse un giorno strano, un giorno senza luce solare. Il nostro eroe immaginò allora la notte del tempo. Era assai difficile pensare a  qualcosa di cui nessuno aveva una chiara idea, eppure in quella notte qualcosa era accaduto, anzi molte cose erano avvenute, e tra queste una in particolare: era nata la vita. Nel mare, naturalmente.
don deng don deng don deng
Ci mancava solo un bel cucù.
Nel mare, va bene, ma poi? Il nostro, che da questo momento chiameremo semplicemente il viaggiatore, in omaggio, s'intende, a un altro ben più noto e famoso viaggiatore di cui abbiamo letto le gesta sin da ragazzi nei romanzi di un tipo molto inglese, immaginò spiagge desolate di luoghi sconosciuti in cui l'andirivieni delle maree lasciava piccole macchie verdi destinate più o meno rapidamente a cuocersi sotto i raggi di un sole che non perdonava. Però...Erano passati tre quarti d'ora dall'inizio della notte della conoscenza e ora le macchie verdi di alghe resistevano, anzi si allargavano.
-E' fatta!- esclamò il viaggiatore.
Poi si spaventò per la sua voce in tutto quel silenzio che circondava la casa a novecento metri dal livello del mare. Già, il mare. Ma che mare era quello? La costa su cui aveva visto quei mucchietti di alghe sopravvivere ed allargarsi sempre di più, non era più la stessa. Perbacco! Le onde s'infrangevano su un'alta scogliera e più giù c'era una spiaggia su cui si affacciavano palme e piante a lui ignote che quasi andavano a bagnarsi nell'acqua. E ancora, ma questa era la cosa più straordinaria, lassù, verso occidente, si levava un pennacchio di fumo...un vulcano! L'immaginazione del viaggiatore, ora che i primi tre quarti d'ora erano passati, lasciò spazio ad un'idea. Insieme al pendolo in quella stessa stanza c'era un vecchio pianoforte, entrambi retaggio di una casa signorile in cui i suoi nonni avevano abitato per quasi l'intera vita. Quest'idea è un po' difficile da raccontare, andrebbe piuttosto udita. Il cronista di questa storia infatti fu svegliato nel corso della notte da una strana musica di pianoforte, un motivo che non aveva mai udito e che durò sino all'una. Quando l'ora scoccò la musica tacque. Purtroppo di essa non esiste uno spartito e quindi non è possibile riprodurla e neanche l'autore era in grado di ricordarla. Nei giorni seguenti quando qualche vicino gli chiese cosa fosse avvenuto nel pieno della notte in casa sua, il viaggiatore rispose evasivo. Forse la televisione era rimasta accesa, ma lui, disse, non aveva sentito niente. Si scusò per il disturbo e della musica non si parlò più. Dire cosa avesse immaginato il viaggiatore mentre suonava è cosa assai difficile e forse la fantasia ci può aiutare a vedere come la faccia della terra cambiava sino a diventare quella che vediamo sugli attuali mappamondi.
Dopo la faccenda della pietra che per poco non gli era caduta sulla testa, il viaggiatore aveva studiato e non sempre aveva capito, ma pian piano le idee su come la pietra si trovasse proprio lungo la falesia che costeggiava andando a passeggio, si erano fatte più chiare. Ma come comparare la chiarezza della comprensione attraverso uno studio scientifico da autodidatta, all'immaginazione che s'era scatenata in quella notte in cui il pendolo aveva fatto don deng don deng don deng da mezzanotte all'una? Non sappiamo bene cosa videro gli occhi del viaggiatore, ma una cosa possiamo dirla. Il viaggiatore spesso, prima di addormentarsi, provava a immaginare come fossero veramente i grandi rettili del passato che noi chiamiamo dinosauri. Lo aiutavano certo le tante ricostruzioni e i fossili visti nei musei che aveva visitato, le riviste sfogliate, i documentari trasmessi dalla televisione, qualche film, ma il nostro viaggiatore ci metteva anche del suo. Provava a pensare al colore della pelle dei dinosauri e si chiedeva se fosse poi vero che quelle bestie ruggissero o emettessero lamenti. E se tutto si fosse invece svolto nel silenzio? Gli capitò di leggere che esistevano luoghi in cui le orme dei dinosauri si erano conservate. C'erano luoghi lontani e altri più vicini, lui scelse di andare a visitare quelli che stavano in Europa e non perché gli mancassero i soldi per andare sino in capo al mondo: di soldi il viaggiatore ne aveva abbastanza. Scelse l'Europa perché gli sembrò così singolare che a pochi passi da autostrade e supermercati, da computer e banche, da monumenti e storia secolare dell'uomo, ci fossero i resti di spiagge e lagune, magari sollevate a mille metri di quota in cui erano rimaste tracce di quel mondo così antico. Quando raggiunse una pista gli dissero che sulla piana desolata e arsa dal sole per più di un milione di anni erano passati i grandi sauropodi nelle loro migrazioni. E c'erano anche  orme di rettili carnivori che li predavano.
-Dove ci sono le bistecche ci stanno i leoni.- disse un anziano signore che faceva da guida.
Mentre camminava cercando di evitare le orme per non distruggerle (non erano in buono stato a causa dell'incuria delle pubbliche autorità) il viaggiatore si guardava intorno e immaginava palme e mangrovie e più lontano una spiaggia e poi il mare e ancora terra emersa e ancora mare, lontanissimo mare.
Il viaggiatore mi raccontò tutte queste cose quando diventammo amici. Lo incontrai proprio lungo il sentiero della pietra piovuta dall'alto, anch'io ero incuriosito dalle strane stratificazioni di roccia che mi parevano pagine di un libro di pietra posate una sull'altra. Lui mi salutò e si fermò per spiegarmi cos'erano, cosa ci aveva capito lui di tutto quell'immenso accavallarsi e piegarsi, di quella grande lotta che era avvenuta e che ancora avveniva sotto i nostri piedi e indicando una macchia verdastra che stava in alto, incastrata fra gli strati di colore marrone tendente al rosso, mi disse:
-Quello è l'oceano.-
Lo guardai sorpreso e lui disse di si con il capo e poi iniziò a raccontarmi che la pietra verde è il fondo di un oceano portato nelle viscere della terra dalla lotta senza pietà dei continenti che si spingono l'uno contro l'altro. Una lotta feroce in cui un elemento cerca di dominare sull'altro e a volte è l'oceano che vince e sale sui continenti. Questo accade quando nascono le montagne e ancora accadrà.
Mi chiese se non avevo paura ad ascoltare questa storia e io risposi:
-Paura no, ma certamente un grande stupore.-
-Pensi-disse lui-Certe persone, quando racconto questa storia o non ci credono o non vogliono sentire. Preferiscono i diluvi universali, le comete o i meteoriti, oppure i continenti mitici abitati da extraterrestri supertecnologici, oggi inabissati sul fondo del mare.-
E sorrideva. Fra le dita teneva una piccola pietra verdastra raccolta lungo il sentiero, me la porse dicendo.
-Basalto, questo è un piccolo pezzetto di quell'oceano che è scomparso. Basalto: non sente come questa parola sia dolce e da pronunciare...é una dolcezza che incute timore. Il basalto erutta dai vulcani che stanno sotto il mare, al centro degli oceani. E' il basalto quello che fa muovere tutto.-
Continuammo a camminare per quel sentiero e il viaggiatore mi parlava delle sue ricerche e di come aveva iniziato ad occuparsi delle rocce. Gli chiesi di mostrarmi le sue fotografie, quelle che aveva fatto sulle spiagge che aveva visitato e sulle montagne che ci circondavano. Diventammo amici e qualche sera andavo a casa sua per ascoltarlo parlare di quel mondo lontano e fantastico che era la nostra terra prima dell'avvento dell'uomo. Mi disse che avrebbe voluto andare in Africa.
-Vorrei visitare i luoghi dove siamo scesi dagli alberi e abbiamo cominciato a camminare nelle savane.-
E aggiunse.
-Mi piacerebbe andare anche in altri posti, ma non si può fare tutto. Sento di diventare un po' vecchio e allora faccio lavorare la fantasia.-
Mi aveva spiegato che prima della Pangea, il continente unico che racchiudeva quelli attuali che poi s'erano staccati e divisi, la Terra aveva avuto altri supercontinenti che s'erano divisi e frammentati e poi quelle terre s'avvicinavano  di nuovo dando origine ad altre catene di montagne molto più alte delle Alpi. E erano esistiti altri oceani: vasti oceani di cui rimanevano le tracce nelle rocce e nelle pieghe della terra. Prima della Pangea c'era stato un oceano a cui i geologi avevano dato il nome di Giapeto, come il fratello di Prometeo, che aveva un mare nella sua parte meridionale.
Questo mare si chiamava di Tornquist.
-Era il geologo che aveva trovato nelle rocce le tracce di quel mare...In Scandinavia, in Danimarca...Tornquist è un nome affascinate. Mi piacerebbe vedere quel mare.-   
Nei giorni seguenti quella serata insieme non vidi il viaggiatore, poi qualcuno mi disse che era partito. La casa era chiusa e tutto era sprangato, come per un'assenza prolungata. Pensai che quell'uomo fosse assai strano e che forse le rocce e la geologia per lui stessero diventando un ossessione. Mi chiesi cosa cercasse in realtà il viaggiatore, ma non trovai risposte. In fondo lo conoscevo da meno di due mesi e solo raramente aveva fatto accenno alla sua vita, agli studi, il suo lavoro di insegnante e fotografo, ai due libri che aveva scritto e pubblicato. Di quella storia della pietra caduta dall'alto e che per poco non l'aveva colpito però mi aveva parlato in modo diffuso e mi aveva detto che gli piaceva che io fossi interessato a quel suo personale viaggio fra le terre su cui mettiamo i piedi quando ogni giorno usciamo dalla nostra casa per compiere gli atti più banali, andare a fare la spesa ad esempio in un supermercato che ha scale con i grandini di granito.
E passarono alcuni mesi, del viaggiatore non si seppe più niente e il suo giardino si riempì d'erbacce, poi venne la neve che nessuno tolse e poi una primavera precoce che si portò via la neve e fece fiorire i fiori di una nuova estate.
Fu all'inizio di un giugno piovoso che ricevetti una breve lettera dal nostro eroe.
"Sono in giro per il mondo." scriveva"Ho capito che prima di morire volevo vedere il mare di Tornquist e altre cose ancora."
Mi pregava di dare uno sguardo al suo giardino e lasciava un indirizzo. Si trattava di un villaggio africano, c'era anche un numero di telefono della missione più vicina. Scrisse anche che si sarebbe fatto vivo quanto prima e mi pregò di dare un'occhiata alla casa. Ma passarono i mesi e di lui non ebbi più notizia.
Una sera appresi dai telegiornali che un terremoto nell'Oceano Indiano aveva provocato ripercussioni in alcune zone della terra. Sapevo cos'erano i terremoti e perché avvenivano e debbo confessare che quella sete di conoscenza che aveva animato il viaggiatore aveva contagiato anche me. L'indomani provai a scrivere all'indirizzo che mi aveva lasciato; non avevo grandi speranze di ricevere risposte, ma volli provare. Scrissi in inglese. Passarono giorni e mesi e disperavo di ricevere notizie dal viaggiatore, ma poi giunse una lettera dalla missione di cui mi aveva parlato. Era scritta in italiano perché chi scriveva si chi chiamava Antonio Zanobrini, un missionario laico che da anni viveva in Africa.
"Il luogo in cui viviamo" scriveva Zanobrini "e in cui comparve improvvisamente il nostro amico è molto arido e qui la gente fugge per la sete, la fame e la guerra. Dopo quel terremoto di cui certo avrete avuto notizia però ci è giunta voce che tra le vicine montagne s'é aperta una voragine da cui è cominciata a fuoriuscire acqua. Forse si tratta di un fiume sotterraneo di cui nessuno era conoscenza. Per noi tutti sarebbe come la manna dal cielo, ma nessuno ha la forza e il coraggio di andare a cercare questa sorgente che forse esiste solo nell'immaginazione della speranza. Il nostro amico invece è partito, da solo e a piedi. Di lui per ora non sappiamo niente, ma tutti pregano affinché torni con una buona notizia. Le scrivo in una serata bellissima, la luna è alta nel cielo e sembra immensa, s'é levato un vento leggero che forse porterà un po' di pioggia."
14 agosto 2014

Stefano Viaggio   

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