Epilogo
Giovanni Riva morì prima della
caduta del Muro di Berlino. Aveva previsto anche lui, come altri nel suo
partito, che quei regimi non sarebbero durati a lungo. Non vide quindi la fine
di quella che qualcuno ha definito "una grande occasione sprecata nella
storia dell'umanità". Si potrebbe rimproverare a chi racconta di porre
termine alla storia di quest'uomo troppo presto: dal millenovecentocinquantotto
ai nostri giorni molte cose sono avvenute, troppe. Ma tutto sarebbe narrato
come un dopo. Dopo quella sera delle elezioni e una notte che si concluse davanti
a una vecchia torre medievale, col tempo andata sempre più in rovina (oggi
restaurata) e accanto a una balaustra di ferro che oggi non esiste più.
Giovanni morì pochi mesi dopo Agnese. Non era più tornato a Roma, al suo
partito aveva detto di lasciarlo in pace. Andava quasi ogni giorno al cimitero.
Dopo aver salutato Agnese, passava a trovare Elena, Clotilde, si ricordava
anche della vecchia Armandina e infine sostava un momento davanti alla tomba di
suo padre. Negli ultimi tempi trascinava un poco il passo e davanti a quelle
tombe si fermava come se attendesse qualcosa. Leggeva ancora molto e guardava
la televisione, pochi giorni prima di morire volle ascoltare un dibattito sulla
crisi del marxismo. Giovanni Riva se ne andò nel sonno: una morte invidiabile,
dice qualcuno.
Ho conosciuto Giovanni Riva
quando ero giovane, me lo presentò Tiziana. Accadde a Roma, al termine di una
grande manifestazione in onore di Dolores Ibarruri, la compagna Pasionaria che
compiva ottant'anni. E così potei ascoltare la voce di quella donna spagnola
che aveva lanciato il grido, quel "no pasaran", ed era entrata nella
storia. La vidi da lontano, al Palazzo dello Sport di Roma, accanto a lei c'era
il segretario del PCI, Enrico Berlinguer. Al termine della manifestazione
Tiziana mi indicò un signore con il cranio quasi rasato a zero e il viso
asciutto che parlava con Dolores Ibarruri. Poche parole per un saluto e una
stretta di mano.
-Quello è Giovanni.-mi disse
Tiziana-L'uomo di mia madre, il mio padre adottivo.-
Da allora ho incontrato molte
volte Giovanni, spesso gli ho chiesto di parlarmi di quel partito che oggi non
esiste più e che già allora era molto diverso da quello che lui aveva scoperto
quando era giunto a Parigi, dopo aver valicato le montagne della Valle d'Aosta
con in tasca i documenti falsi avuti da uno strano prete. Otto anni fa
realizzai, per conto dell'Istituto di ricerca per cui lavoro, un'intervista con
Giovanni Riva in cui raccontava la sua vita. In quell'occasione avevo anche
intervistato Agnese. Forse a qualcuno i due personaggi della storia che sto
terminando di scrivere, sembreranno come le statuette etrusche in cui marito e
moglie sono insieme, vicini, come se emergessero da una tomba aperta dopo
secoli. Sappiamo che non è così, sappiamo che ci separano dai fatti che hanno
attraversato la vita di Giovanni e di Agnese solo poche decine di anni. In
questi giorni, mentre sto per concludere la storia che volevo raccontare provo
a immaginare come potrei scrivere di Giovanni, del suo partito, di Agnese, di
Tiziana, e forse anche di me, se non avessi deciso fermamente di arrestarmi
all'alba di quel nuovo giorno. E allora provo a far comparire davanti ai miei
occhi alcuni momenti, seguo un metodo: mi appello al ricordo di conversazioni
avute non con Giovanni Riva, ma attorno a Giovanni. Le mie fonti di ispirazione
si riducono a due persone: la mia amica Tiziana e Vincenzo che recentemente mi
ha scritto una lettera in cui giudica in modo positivo un mio libretto
pubblicato sei mesi fa. E infine c'è un ricordo, questa volta è un mio ricordo.
E cosa vedo? C'è Agnese seduta in
poltrona e sembra la statua della paura. La radio ha appena dato la notizia
degli incidenti di Reggio Emilia in cui sono morti cinque giovani antifascisti.
La tensione nel paese è alta, Agnese sa che Giovanni a Roma sta organizzando
una manifestazione che dovrà concludersi con la deposizione di una corona di
fiori al monumento che ricorda la Resistenza, la lapide di Porta San Paolo. La
polizia di Tambroni sparerà ancora sui dimostranti? Giovanni è insieme alla sua
gente, non potrebbe che essere così. E vedo Tiziana entrare nella stanza con un
giocattolo, è un cavalluccio bianco e rosso, un regalo di Giovanni.
-C'è Claretta, mamma posso
scendere a giocare?-implora Tiziana, s'è accorta che quel giorno in casa tira
una brutta aria. Tiziana infastidisce Agnese. Vorrebbe rispondere a sua figlia
che non sono quelli i momenti per pensare al gioco, ma si ferma in tempo.
Sento la voce di Agnese.
-Rimanete nel cortile e quando ti
chiamo per cena vieni su senza far storie.-
Tiziana se ne vola via a giocare
con la sua amichetta del cuore.
E ora vedo Giovanni Riva che si
muove in mezzo a una folla muta, sotto un cielo cupo. Giovanni attorno a se
avverte incertezza, rabbia e silenziosa pietà.
L'altoparlante trasmette l'omelia
funebre. Il Duomo di Milano è strapieno, come pure la piazza. Giovanni ascolta,
anche lui è incerto. Dov'è il nemico? In quali stanze si riunisce e decide?
Giovanni sa che è più forte, cento, mille volte più forte del Camelot che lo
ferì a Parigi, dello spagnolo che uccise, di chi morì
sotto il fuoco dei mitragliatori sulle colline attorno alla sua città. Giovanni
pensa ad Agnese: attende inquieta, vorrà parlare con lui della bomba.
Perchè l'anarchico s'è ammazzato?
Giovanni immagina che Agnese
quella sera stenterà a prender sonno e sta in pensiero per Tiziana.
-A tutti i costi è voluta restare
a Milano. Non ha voluto sentire ragioni.-
Così gli ha detto al
telefono.
E vedo una ragazza avvicinarsi a
Giovanni, sorride, ma solo per un momento. Giovanni e Tiziana si scambiano un
bacio sulle guance: le bare stanno per uscire dal Duomo. I lunghi capelli di
Tiziana si sciolgono sul montgomery e i libri sono nella borsa di pacthwork, è
iscritta al primo anno di medicina. Non c'è ombra di trucco sul viso, come
usavano le ragazze di sinistra in quegli anni. L'unico ornamento di Tiziana è
una sciarpa di seta che un tempo fu di
sua madre, ora le protegge la gola in questa fredda giornata di dicembre. I
morti del 12 dicembre del 1969 sono per lei, per i giovani come lei e come me,
allora, la perdita dell'innocenza, uno schiaffo improvviso, forse uno stupro. Così
è stato scritto. Vedo Tiziana e Giovanni alla stazione di Milano Centrale, lui
va da Agnese, Tiziana resta a Milano. Sente il bisogno di parlare, spiegare,
organizzare, fare, chiedere. Giovanni le risponde incerto, vorrebbe che salisse con lui sul treno, ma è contento che
Tiziana voglia rimanere a Milano. Dal finestrino guarda la gente, per molti la
bomba è solo un fatto. Sente il bisogno di un'infinita pace. Sa, e noi oggi
sappiamo, che il desiderio non verrà esaudito.
E ora vedo Giovanni e il suo
amico Vincenzo. Nonostante le divisioni del cinquantasei, sono rimasti uniti
per la vita intera. Il dialogo che scriverò lo colloco pochi mesi prima che si
manifesti il tumore che ucciderà Agnese.
-Avemmo torto ad essere
presuntuosi, siamo stupidi oggi a passare per sprovveduti.-
Giovanni ha sotto gli occhi il
giornale e la sua attenzione è caduta su un articolo troppo lungo, certamente inutile.
Giudica la situazione del partito grave.
Vincenzo gira il caffè nella
tazzina.
-Se penso alla mia vita-dice-mi
sorprende il giro vizioso che ho fatto. Una donna mi detto che in me c'è
sicuramente qualcosa di perverso. Sono andato via dal partito sbattendo la
porta, ho fatto il giornalista indipendente, ho scritto libri, ho rifiutato
premi, sono stato oltraggiato, adulato, sono diventato vecchio e finito sullo stesso palco, due giorni fa, a
parlare insieme a Giovanni Riva...Si. In me c'è qualcosa di perverso.-
Giovanni solleva il capo, guarda
l'amico con aria di sfida. E’ invecchiato, ma conserva i tratti di uomo del
nord. Viso lungo, ora solo leggermente arrotondato dall'età.
-Può darsi che la signora abbia
ragione.-risponde-Oggi potresti essere un opinionista alla moda, uno che un
giorno sì e uno no compare in televisione e parla, parla, parla. Ben pagato. E
invece te ne stai con Giovanni Riva. Sono certo che tu sia un perverso
pericoloso.-
Vincenzo ride.
-I soldi non mancano. Tu mi hai
perdonato per essermene andato via dal partito, allora?-
Sul cinquantasei avevano discusso
e a volte anche litigato, mai era accaduto che Vincenzo ponesse il discorso su
un piano così diretto e personale. La domanda porta Giovanni indietro nel
tempo, a quasi trent'anni prima. Rivede Sibilla. Fra poche ore dovrà andare
all'aeroporto per prendere Agnese, questa sera hanno deciso di andare a teatro.
-Forse dovevi restare, forse hai
fatto bene ad andar via. Tu almeno non provi la sensazione che ho io quando
vado in giro e magari mi trovo con persone che non conosco. Leggo negli occhi
degli altri un pensiero: "arriva il comunista". E' come se fosse un
avvenimento.-
-Ti pesa la qualifica?-
-No.-
Giovanni questo no l'ha
mormorato, guarda oltre la vetrina del bar, oltre il traffico caotico, oltre
Roma. Si vede ragazzo.
-Negli ultimi tempi ho pensato
spesso a un compagno di cui non ho saputo nemmeno il nome. Lo conobbi prima che
mio padre mi spedisse in Valle d'Aosta ad espiare. La riunione avvenne al
tramonto, c'era anche Clotilde, poi fummo traditi. Il compagno veniva dalla
Francia e ci parlava della Russia, della lotta di classe e del futuro. Era un
uomo piccolo e, se ricordo bene, anche un po' brutto. Poveretto, credo che non
si cambiasse da giorni. Non fece commenti quando gli altri spiegarono chi ero e
da quale famiglia provenivo. Non disse niente, mi colpì solo quello che passò
per i suoi occhi...-
-Speranza.-
-No. Compassione.-
-Compassione...-
-Si, compassione. Era come se
volesse dirmi, tu apri gli occhi sul mondo. Vedrai quanto è brutto, nauseante,
pieno di gente che soffre e fa soffrire. Quell'uomo ebbe compassione per me...-
-Quella che prova un prete.-
-E' troppo semplice. Tutti oggi
dicono che dobbiamo essere felici. Io questa felicità la guardo e non posso
fare a meno, sempre, di osservare che c'è una macchiolina, una piccola
crepa...una lacrima. Ecco cos'è! Una lacrima. Vincenzo. E' come una condanna.
Ho capito cosa mi disse allora quel rivoluzionario di professione: tu sei
condannato a non essere completamente felice, sei condannato a rappresentare
questa non felicità. Questo mi disse.-
E ora mi vedo io, ho tredici
anni. Non avevo visto tante bandiere rosse come quel giorno. Sono listate a
lutto perché è morto Togliatti...Passo davanti ai giardinetti di Piazza Venezia,
dove c'è il capolinea del 92. Sono venuto con mio fratello che mi ha telefonato
e ha detto di farmi trovare sotto casa a una data ora. Abbiamo preso l'autobus
e siamo scesi davanti al palazzo
dell’Anagrafe, a pochi passi da Via delle Botteghe Oscure. C'è tanta gente e
sono un po' confuso. So chi è Togliatti, l'ho visto in televisione, ne ho
sentito parlare male da mio padre, due giorni primo ho letto i titoloni
dell'edizione straordinaria dell'Unità appesa all'edicola sotto casa. Qualcuno
ha detto:
-Ah, è morto...-
Era una voce distratta, attutita
dal vento che quel giorno tirava violento, mentre il cielo si oscurava per le
nubi cariche di pioggia.
Una ragazza comunista, forse è
venuta dall'Emilia, siede sull'erba dei giardinetti accanto a due bandiere
rosse stese nel prato. Ha i capelli neri, forse...Un fazzoletto al collo,
rosso, e qualcosa di rosso appuntato sulla camicetta celeste. Mi sembra bella,
anzi, affascinante. Sento la sua voce, è un italiano diverso dal mio.
Ci mettiamo in fila e aspettiamo
davanti al portone. Finalmente, in un
grande silenzio, entriamo anche noi. Ricordo la bara e tante corone di fiori
rossi, quattro uomini in tuta blu, il picchetto d’onore. La gente bacia il
drappo rosso che ricopre quel legno, non ricordo se era chiaro o scuro, prima
di me passa un vecchio piangendo e struscia la faccia contro la stoffa. Spinto
da non so cosa, bacio anch'io la bandiera, mio fratello saluta soltanto. E per
la prima volta vedo i comunisti. Tanti comunisti.
Anni dopo, molti anni dopo, sono
quasi un vecchio, ho rivisto il film sui funerali di Togliatti pubblicato su YouTube
(che straordinaria invenzione!) e in mezzo a tanti comunisti mi è sembrato di
vedere Giovanni insieme ad Agnese che ha
portato anche Tiziana. Volevo essere certo di questa scoperta. Era bello e
sorprendente poterli vedere molto più giovani di quando li avevo conosciuti.
Per questo ho rivisto il film tre volte. Erano proprio loro. E Giovanni c’è di
nuovo, questa volta tra i dirigenti del partito che seguono il feretro. Togliatti
è morto, i comunisti lo piangono, ma quei volti, quella commozione, quei segni
di croce sulla bara di un comunista, i pugni chiusi degli operai che stanno
appesi alle grate di ferro e si reggono come marinai provvisti di un equilibrio
fantastico, appreso in anni di lavoro sui cantieri di questa Roma sempre più
grande, mi sembrano non un addio all'uomo che se n’è andato per sempre, ma un
saluto alla storia che sta alle spalle, a un mondo fatto di facce che non
torneranno più come in quel giorno. E' qualcosa che muore. E’ un'altra storia
che comincia. La mia, di quelli come me, e di ragazze come Tiziana.
Pochi giorni dopo il funerale di
Giovanni, Tiziana ha cercato di mettere ordine nei documenti che l'uomo di sua
madre aveva accumulato nel corso degli anni. In una cartellina posata sulla
scrivania ha trovato una lettera con un francobollo australiano e dalla data
sul timbro, s’è accorta che era giunta pochi giorni prima della morte di
Giovanni. Lui non ne aveva parlato con nessuno. Tiziana ha letto la lettera e
ha pianto.
Oggi sono andato a trovare la mia
amica Tiziana.
Si sta bene in giardino, l'aria è
mite.
-Leggi, è straordinario.-
Tiziana mi ha messo la lettera
sotto gli occhi e dopo le prime righe ho capito, anch'io non sono riuscito a
trattenere l'emozione. E’ di Grete la
lettera, la piccola Grete che era stata picchiata dai giovani nazisti e per
tutta la vita ha camminato con una gamba più corta dell'altra.
Grete scrive in buon italiano.
"Signor Senatore Riva. Forse
non si ricorda di me, ma io l'ho conosciuta molto tempo fa, oggi sono nonna e
lei, dalla fotografia che ho visto, non è più il giovanotto che ricordo in casa
di mia madre a Parigi. Vorrà sapere come ho fatto a raggiungerla? E' stata
un'amica a mettermi sulle sue tracce. Ha visitato l'Italia e ha letto su una
rivista un'intervista in cui lei parlava di Parigi, del viaggio avventuroso per
giungere in quella città. Ricordava persone conosciute allora e parlava di una
donna tedesca, Margarethe, che non aveva dimenticato. Ricordava mia madre con
grande affetto. Inge conosce la storia della mia famiglia e ha collegato subito
lei a Margarethe. Ha conservato la rivista e quando ho letto l'intervista non
ho avuto dubbi: è lei il giovanotto che un giorno mi regalò un orsacchiotto e
mi faceva ridere portandomi a cavalluccio attorno al tavolo nella cucina di
Parigi. Signor Senatore Riva, lei è rimasto fedele alle sue idee, furono quelle
di Jacob e di Margarethe. Morirono a Dachau, mio padre nel 1935, mia madre nel
1941. Margarethe tornò in Germania perché mi ero ammalata e fu arrestata pochi
mesi dopo, di lei ho un ultimo ricordo. Un pomeriggio di pioggia e i suoi
occhi: mi cercano. Mia nonna era una donna di molte risorse e aveva un amico
che era antifascista, ma trafficava con i nazisti. Ci procurò i passaporti e
partimmo alla volta degli antipodi, certi parenti ci avevano proposto di
raggiungerli. Margarethe voleva che crescessi lontana dalla Germania e io non
sono mai più tornata nel mio paese. Mia nonna un giorno mi disse che Margarethe
aveva conosciuto un italiano che era andato a combattere in Spagna e forse era
morto. Sono contenta di aver scoperto che non è vero. Ho vissuto la mia vita in
questa terra lontana dall'Europa, sono un avvocato e mi sono sposata due volte,
ho quattro figli e molti nipoti. Ai figli, alle figlie, ai nipoti ho parlato
spesso di mia madre, di mio padre che ricordo appena, e degli italiani.
Cantavano le loro canzoni e sembravano allegri in quei tempi tristi. Io li
ricordo così. C'era una signora che mi teneva sulle ginocchia, era più anziana
di Margarethe, ricordo i suoi capelli, lunghi e neri..."
Aosta 30/1/2013
Stefano Viaggio